Le sale di cinema sono invase, come mai prima, da documentari di pregio che raccontano i conflitti del mondo, l’arte, la politica, il sesso, la scuola…
Sembra la smentita di uno dei caposaldi della sociologia cinematografica classica, che vede il pubblico desideroso, nei periodi di crisi, soprattutto di distrazione, evasione, anche intelligente e di alto livello magari, di scintillii di divi e scenografie, di storie piene di pathos ma a lieto fine. Invece oggi, anche nelle sale italiane, sia pure con un ritardo 50ennale rispetto alla propensione degli spettatori anglosassoni a essere informati sulla realtà in un cinema, trovano finalmente spazio documentari di tutti i tipi. Magari con la formula della serata evento, che a volte ha così successo, come nel caso di National Gallery di Frederick Wiseman, da dover essere replicata per il pubblico rimasto “fuori” (nel genere, circola ora, per il 125° anniversario della scomparsa dell’artista, il tour cinematografico nel Van Gogh Museum di Amsterdam filmato da David Bickerstaff).
Ma il dato forse più significativo è che alcuni titoli di primo piano, e di livello internazionale alto, iniziano ad avere una programmazione stabile, come si dice in gergo “a tenitura”. Escono nelle sale del circuito normale, e in un numero significativo, per restarci magari due, tre settimane. Prima di mostrare il panorama dell’offerta di questi giorni, va però citato il film che ora sta facendo discutere tutta Europa, e sarà visibile in Italia su Sky (8 maggio): The Great European Disaster Movie dell’italiana Annalisa Piras e di Bill Emmott (ex direttore dell’Economist), immagina l’uscita nel 2016 della Grecia dall’eurozona e l’anno dopo quella della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Mentre ovunque, nel nostro continente, trionfano i partiti populisti, la fine della UE sarebbe fissata, per autodistruzione, nel 2035. In realtà qui siamo a un livello diverso di elaborazione, perché con ogni evidenza i dati di realtà sono alla base della storia, ma la sua evoluzione narrativa è previsionale, costruita su possibili evoluzioni della situazione socio-politica, ma non su fatti accertati, oggettivi, comunque già accaduti. Docufiction dunque, non “docu” e basta.
Per tornare ai film presenti nelle sale, e che raccontano eventi, personaggi reali, sulla base anche di ricostruzioni letterarie o interviste ai diretti interessati, sono almeno quattro i film, assai diversi tra loro, che vale la pena di tener d’occhio. A cominciare da Il figlio di Hamas dell’israeliano Nadav Schirman, ricostruzione del “tradimento” del figlio di un leader del movimento palestinese, che, disgustato dalla politica di violenza di quella fazione, diventa informatore israeliano. Ne seguiamo la complessa “conversione” e il rapporto sempre più stretto con l’agente dell’ex-nemico che lo arruola e finirà per rischiare la carriera, e forse la pelle, per garantirgli, negli Usa dov’è fuggito, l’incolumità e una nuova vita. Non è la forma ideale di pacificazione che abbiamo sognato per il Medioriente, certo, nè il sistema migliore per risolvere le controversie politiche tra i popoli, ma a suo modo anche questo racconto, che assume a tratti le movenze di un appassionante psico-socio thriller, manda un suo messaggio di convivenza, anche di chi si è odiato fino a poco prima.
Di grande interesse è anche Citizenfour, il film-intervista (contestualizzato e ambientato, è chiaro, ma la star, il personaggio, è soprattutto lui, anche sul piano umano) a Edward Snowden diretto da Laura Poitras, vincitore con merito dell’Oscar 2015 al miglior documentario: racconta come un mite esperto informatico, divenuto di fatto, per ragioni aziendali, agente della NSA (National Security Agency, struttura segreta americana di intelligence parallela della CIA) decida di rivelare al mondo intero, attraverso un giornalista del quotidiano inglese The Guardian, come il governo americano abbia per anni intercettato le comunicazioni private di decine di milioni di persone di tutto il mondo, tutte (o quasi) senza alcuna imputazione a carico, e quindi in maniera totalmente illegale, dalla signora Merkel, premier di Germania, in giù. Un pericolo per la libertà, ma soprattutto una lesione dei diritti personali che Snowden a un certo punto decide che non può più accettare.
Di tutt’altro genere le altre due docu-proposte disponibili sugli schermi. In Qualcosa di noi la regista romana Wilma Labate mette di fronte, con tutto il suo potenziale disturbante e provocatorio Jana, 46enne prostituta bolognese che ha due figli e un compagno e ha scelto “il mestiere” per vivere, e dodici aspiranti scrittori della scuola Bottega Finzioni, curiosi e timorosi di sapere di lei ma anche di scoprire piccoli e grandi segreti della loro psicologia e sessualità. In La sQuola di Babele infine, Julie Bertuccelli si intrufola, piena di curiosità e di domande affettuose, in una classe parigina di accoglienza per ragazzi e ragazze (dagli 11 ai 15 anni) irlandesi, senegalesi, brasiliani, marocchini, cinesi e di altre provenienze, che lì imparano il francese come prima tappa del loro inserimento nella nuova realtà in cui probabilmente vivranno. La loro innocenza, energia, rabbia, le condizioni di vite complicate, spesso povere in cui si trovano, in molti casi non fanno però venire meno il loro desiderio di cambiare vita. E anche di impegnarsi insieme in questa esperienza di apprendimento, sconvolgendo idee preconcette e pregiudizi di cui loro stessi non sono esenti.
A completare questo panorama non possono mancare le Cattedrali della cultura in 3D radunate da Wim Wenders (autore in proprio del film sulla Filarmonica di Berlino) in un collage che comprende la Biblioteca Nazionale Russa (ripresa da Michael Glawogger) il carcere norvegese di Halden (Michael Madsen), l’istituto biomedico californiano Salk (Robert Redford), l’Opera House di Oslo (Margreth Olin) e il parigino Centre Pompidou (Karim Aïnouz).
Foto: Edward Snowden in Citizenfour