Il nuovo film di Pedro Almodovar, passato al Festival di Cannes dove si spera abbia finalmente il riconoscimento che merita da sempre – e già sui nostri schermi – è come una summa della poetica del più famoso regista spagnolo: senza manierismi né retorica, è un’utile lezione del cinema (di ieri, oggi, domani) come salvavita che si può azionare anche da soli. Ruoli fondamentali occupano i “suoi” attori, Antonio Banderas, Julieta Serrano, Penelope Cruz su tutti, poi Nora Navas e Leonardo Sbaraglia
La memoria, superstar. Da che gli uomini ragionano, fanno spettacolo, non hanno fatto che ricordare: e anche se oggi i ricordi pubblici, sociali, collettivi si sono smarriti in modo indecente, almeno il cinema e il teatro continuano a battere su questo tasto, che può anche esserlo ma non è sempre dolente. A Roma è in scena uno spettacolo che parte dalla patologia dell’Alzheimer e si intitola Non mi ricordo più tanto bene di Gèrard Watkins, molte sono ancora le commemorazioni di date da non dimenticare, momenti storici, quel famoso 25 aprile o altro che ogni anno molti giovani interrogati dai tiggì non ricordano. Ma è la memoria costruttiva, esibizionista, artistica, vitale che ha reso immortali Fellini e Proust, Resnais e Olmi e mille altri.
Si aggiunge ora, raggiunti i 60 anni, reduce da un intervento alla schiena, Pedro Almodòvar che chiude con Dolor y gloria – il film appena presentato al Festival di Cannes e già in programmazione in Italia – la trilogia, il bilancio soprattutto affettivo della sua personale odissea, raccontata in La legge del desiderio e poi La mala educaciòn. Anche stavolta, e non a caso, il protagonista è un regista in crisi che non sa ritrovare la sua ispirazione ma che sente la necessità di lavorare, anche perché ha conti in sospeso col suo corpo e si rende schiavo della droga.
Ed ecco che parte così, dolcemente, con la memoria di lui bambino con mamma Penelope Cruz, quando vanno ad abitare in una “grotta” (c’erano, nella natìa Mancha, dice l’autore) il nastro della sua esistenza giunta quasi al capolinea con un grande debito verso una generazione femminile. Regista misantropo di fama, Salvador Mallo è ormai un pezzo da cineteca con dibattito, ma riprende i rapporti col suo attore feticcio Alberto, che si spinge fino a interpretare in teatro la storia del suo amico regista. Un intrecciarsi di memorie, quindi, che sfociano nel bisogno terapeutico omeopatico del cinema: fare cinema per guarire.
Intanto noi assistiamo ai brandelli di vita di Mallo, il ricordo del primo forte turbamento sessuale, un imbianchino in doccia, che lo fece svenire come La marchesa von O., l’incontro con il suo primo amore che ora ha famiglia, ma mantiene vivo l’affetto. La cosa estrema, che un poco aveva fatto anche Mastroianni rendendosi molto simile al maestro in Otto e mezzo, è che mentre le riprese del film procedevano, il protagonista Antonio Banderas, pupillo di Almodovar, si muoveva in un universo sempre più simile a quello di don Pedro della Mancha: la sua casa nel film, nato nell’afosa estate del 2017, è arredata con le cose preziose d’arte contemporanea del regista, che stanno nella sua casa di Madrid, Paseo del Pinter Rosales; i vestiti e le scarpe che porta Banderas sono i suoi, la cucina rosso squillante è la sua e i sentimenti ovviamente fluttuano nella stessa direzione.
Il film, infatti, acquista una valenza emotiva forte in cui trovano spazio tutte le madeleines di Pedro, così come l’abbiamo conosciuto nella sua brillantissima carriera: le figurine dei divi del cinema raccolte da bambino, Mina nella colonna sonora che canta Come sinfonia, un monologo teatrale biografico che forse fa il verso a tanti esperimenti visti in questi anni. È questo continuo viaggio a sbalzi nel tempo che salva il nostro regista da una crisi senza uscita, il costruttivo valore delle esperienze del passato viste come fondanti dei sentimenti di oggi. La mamma in primo piano, quando era la giovane e bellissima Penelope e poi da anziana, quando si lamenta con Pedro perché non è stato un buon figlio e non riesce a tornare a casa a morire nel suo letto, il che lascia nell’eterno “bambino” un rimpianto incolmabile. Tutte storie vere, vita vissuta e non più rimossa. Solo girando, mentre noi vediamo, la memoria in cinema, traslocandola col peso anche del dolore e con la medicina dell’esibizionismo artistico, si può guarire dalle malattie tumorali come la nostalgia e il rimorso.
Dolor y gloria è come una summa della poetica del più famoso regista spagnolo, ma senza manierismi né retorica, ma con una utile lezione del cinema, di ieri oggi domani, come salvavita che si può azionare anche da soli. Che dire degli attori? Sono insostituibili, sono parte della sua vita, compresa Julieta Serrano che torna a lavorare con Pedro ed è la vecchia mamma, Nora Navas che gli fa da badante e confidente e amica e infermiera e il 48enne Leonardo Sbaraglia con cui Banderas si scambia un bacio già entrato nella cult serie.
Uscito dalla depressione, il regista torna quindi a Cannes, dove è stato molte volte in concorso ma non ha mai vinto la Palma, e ci spera molto, e noi tifiamo anche senza aver visto gli altri film. Perché lo merita una carriera, una poetica e quel “triste, solitario y final” che il regista sa trasformare poco alla volta in 110 minuti di immagini, alternando i flussi del tempo, anzi comandandoli, perché anche una tac può spingerti verso l’infanzia: è la famosa memoria involontaria, non programmata, della “recherche”. Ma non è più quell’universo pop e festoso della movida anni ’80, quello del primo tempo della sua carriera sull’orlo di una crisi di nervi: la crisi poi c’è stata, ci sono state opere annichilite nel silenzio ed ora Almodòvar torna in piedi e va alla radice di se stesso, cerca l’essenziale di un fiore, non solo il suo profumo.
Dolor y gloria, di Pedro Almodóvar, con Antonio Banderas, Asier Etxeandia, Leonardo Sbaraglia, Nora Navas, Julieta Serrano, Penélope Cruz, Cecilia Roth, Raúl Arévalo, Eva Martín, Susi Sánchez