Tutto si è detto della prima scaligera ma poco che Don Carlo, il capolavoro verdiano andato in scena il 7 dicembre – 13 minuti di applausi, molte lodi ai cantanti e a Chailly, ma non alla regia – è in realtà un falso storico. E, nel giorno in cui il canto italiano diventa patrimonio immateriale dell’umanità, proprio questo elemento sottolinea che la sua verità non necessita di verosimiglianza
Tanto è stato detto, anche troppo. Ma Sant’Ambrogio lo sa e porta pazienza. Tutto è stato visto, anche prima che si alzasse il sipario e si accendesse la tv d’Italia. È rimasto qualcosa nel cassetto di Don Carlo? Una chiave in tasca? Forse sì, un tema sfiorato en passant: che l’opera più lunga e lavorata di Verdi – cinque versioni tra il 1866 (Parigi) e il 1886 (il “collage” di Modena), passando per Napoli (1872) e Milano (1884) -, il titolo che tutti squillano, anche per sentito dire, come il capolavoro più ricco di temi e novità nei trentototto (fra originali e rimaneggiamenti) firmati da Giuseppe Verdi, è un fantastico, meraviglioso falso storico.
Chi lo dice? Lui même: «…in questo Dramma (di Schiller, ndr) splendido per forma e per concetti generosi, tutto è falso. Don Carlos era un scemo (sic), furioso, antipatico. Elisabetta non ha mai amoreggiato con D. Carlos. Posa, essere immaginario, che non avrebbe mai potuto esistere sotto il regno di Filippo. Filippo non era così tenero (come l’ho descritto io, ndr). In fine in questo Dramma nulla vi è di storico, né vi è la verità e la profondità Shacspiriana (sic) dei caratteri… ma allora, una di più una di meno non guasta nulla». Lo scrive Verdi a Giulio Ricordi, suo editore, a proposito del finale che evoca lo spettro di Carlo V, morto e sepolto. Data: 19 febbraio 1883, un anno prima che andasse in scena alla Scala la versione “della Scala”, in quattro atti e senza balletto, che abbiamo ascoltato alla Scala e che alla Scala potremo vedere ancora domani, 10 dicembre, poi il 13, 16, 19, 22, 30 e il 2 gennaio, esauriti permettendo.
Don Carlo(s). Il vero figlio di Filippo II non era nelle condizioni di scatenare tempeste ormonali in nessuna/o. Era fisicamente e mentalmente “sottosviluppato” (cito Cedric Wallis, scrittore, sceneggiatore, uomo di teatro e di cinema, in un vecchio saggio del 1966). A 18 anni pesava meno di 34 chili. Una spalla era più bassa dell’altra e la vista offesa. Aveva difficoltà di parola e una epilessia chiaramente diagnosticata. A 17 anni cade da una scala probabilmente inseguendo una delle “serve” (scusate, si chiamavano così e come tali erano trattate). Il che non migliora le sue condizioni mentali. Rimane per un certo periodo quasi cieco e paralizzato, fino all’intervento di un chirurgo italiano che gli asporta un triangolo di cranio. Successo parziale: sviluppa istinti omicidi e ad allora risale il morboso attaccamento alla matrigna, Elisabetta di Valois, sua coetanea promessa a lui ma poi “concessa” a Filippo II per garantire alla Francia l’amicizia della più potente Spagna. Don Carlo sviluppa il suo odio per il padre e una mania di persecuzione che gli fa indossare speciali stivali in cui inforcare due pistole. I documenti certificano tentati omicidi nei confronti del governatore Don Garcia de Toledo e di altri alti personaggi, prima di venire segregato, anche per salvarlo da sé stesso, prima di morire a 23 anni, gli stessi di Elisabetta, pochi mesi dopo la matrigna.
Alla Scala gli dà vita Francesco Meli, uomo maturo ma capace di smuovere attenzioni, credo; tenore sensibile e intelligente, che fraseggia con cura e ha la parola in bocca, ha bei colori e dizione ammirevole, affronta con piglio schietto la serie di si bemolle e si naturali di cui la parte è disseminata (e un po’ lo affatica lungo i quattro atti, senza offuscarne la prestazione). Al suo squillo emozionante, non solo nell’idea-guida dell’opera (il duetto “Dio, che nell’alma infondere”, insieme a Posa), si devono gli applausi della prima e probabilmente di tutte le altre sere. (Meli inaugura la Scala per la sesta volta).
Filippo II. Tre anni prima degli eventi narrati da Schiller, ripresi e riplasmati nel libretto da Joseph Méry e Camille du Locle, Filippo, ancora Infante di Spagna, si era sposato nella cattedrale di Winchester con Mary Tudor, più vecchia di lui e molto meno bella di Elisabetta. Con questo atto pubblico la davvero infelice coppia sommava i titoli di Re e Regina di Inghilterra, di Francia, di Napoli, di Gerusalemme e Irlanda, nonché di “Difensori” della fede” (da cui l’importanza della Chiesa in questa e altre storie), di Principi di Spagna e Sicilia, Arciduchi d’Austria, Duchi di Milano, Borgogna e Brabante, Conti di Asburgo, Fiandre e Tirolo. Quando Mary morì senza figli, Filippo rimase carico di questi titoli e quando Carlo V, dopo aver promesso Elisabetta a Carlo la consegnò a lui, Filippo aveva solo 34 anni. Non era certo il severo “sire” carico di anni con cui passa alla storia, come se non fosse mai stato giovane. Nel suo ruolo di potentissimo fra i potenti (favorito nell’estensione abnorme di possedimenti da coincidenze storiche e matrimoni combinati, alla fine quattro), Filippo II non era “tenero”, come ammette Verdi: l’ordine (suo) era intoccabile e delle Fiandre protestanti difese da Carlo e Posa non poteva sopportare alzate d’ingegno patriottiche. Ma nella realtà dei fatti, secondo i criteri del tempo, Filippo fu verso il figlio mezzo mostro più tollerante di quanto si tramanda. Lo protesse e lo segregò, entrando in armi e con armigeri nella sua camera, sottraendogli l’archibugio che teneva sul “comodino”, solo quando fu chiaro che Carlo era pronto a ucciderlo.
Oggi alla Scala, Filippo II, nel quale Verdi trascrisse con trasporto le sue riflessioni sul tempo che passa, sulla vecchiaia, sulla felicità che nemmeno il potente può garantirsi, sull’amore mai goduto, c’è un altro cantante con la parola in bocca e il fraseggio penetrante di chi ha pensiero, esperienza e sensibilità: Michele Pertusi. Una défaillance alla fine dell’atto secondo, annunciata anche in proscenio forse solo per cautela, non gli ha impedito di tenere alto, molto alto, l’assolo d’inizio Atto Terzo che distilla uno dei più commossi “luoghi” verdiani della solitudine, “Ella giammai m’amò”. Coperto da applausi giusti, non di favore.
Elisabetta di Valois era invece bella come il teatro la immagina. Figlia di Enrico II di Francia e di Caterina de Medici, sorella di Margherita di Valois, era nata anche lei nel 1545, come Carlo, e morì nello stesso 1568, pochi mesi prima del figliastro. Sul palcoscenico della Scala, Elisabetta gode della florida sensualità di una regina del teatro in musica, Anna Netrebko, che non ha i circa 14 anni della vita vera, ma le dona la potenza di una voce di soprano tra le più importanti degli ultimi vent’anni e una presenza scenica (quella che nessuna te la insegna, come alla “Maria”) che la sbalza al centro dell’opera anche se Elisabetta al cuore di Don Carlo non è. Il personaggio che nell’originale di Schiller è una “santa di gesso”, un poco comprime le qualità di Anna Netrebko, che libera la sua forza drammatica nell’ultima scena (“Tu che le vanità”), giusto per far cadere la Scala ancora una volta ai suoi piedi, nel sesto 7 dicembre della sua carriera.
Eboli era guercia e portava una pezza nera sull’occhio destro (litografia di José Vallejo, da un ritratto contemporaneo). La principessa che nella realtà storica si chiamava Ana de Mendoza y la Cerda, che teneva testa al re, donna volitiva e appassionata, di fascino sinistro (che alla fine ammette di essere stata amante di Filippo), alla Scala è ancora più felicemente “falsa”: ha la bellezza altera e nordica di Elīna Garanča, e la voce di un mezzosoprano che un poco si è offuscato nei centri, ma ha conservato un registro acuto agile e perentorio. Dalla grande scena dell’atto terzo (“O don fatale”) tutta la serata e tutta l’opera hanno preso forza, costringendo il pubblico della Scala a non smettere di ammirarla.
Rodrigo. II marchese di Posa (promosso a duca nel corso dell’opera), l’amico di Carlo con cui stringe un patto di fratellanza che non violerà mai, nonostante le apparenze, nell’opera è “l‘altro Carlo” che con il vero condivide una delle invenzioni più strepitose di tutto Verdi: il duetto “Dio che nell’alma infondere”, scambiato spesso come un leitmotiv wagneriano nelle sue riprese con tempi, colori ed espressioni diverse, sempre più virate verso la malinconia. Rodrigo, il nobile difensore degli “altri”, il sostenitore delle Fiandre che chiedono libertà, nella realtà storica si chiamava Ruy Gomez, era amico e fedele del re, messo a tutela di Carlo quando l’Infante aveva manifestato tendenze omicide, delle quali Gomez era stato anche bersaglio. Era un guardiano del potere costituito, insomma, che nell’opera è un baritono e alla Scala si chiama Luca Salsi, vero eroe dello spettacolo nel caricare di slancio la linea di canto e nel proiettare sul personaggio l’orgoglio libertario e la consapevolezza del suo destino: morire per essersi messo dalla parte di Carlo e dei deboli. Salsi è la turbina che fa girare la musica e lo spettacolo. Logico che appassioni la Scala ormai da quattro inaugurazioni.
L’Inquisitore è, nell’opera, esattamente quel che era nella storia: l’inquietante simbolo della Chiesa non come religione e fede, ma come potere superiore a quello terreno. Del resto, i sovrani e i nobili del mondo hanno sempre basato l’intoccabilità del loro potere su chi? Dio. E chi è la mano di Dio in terra?
In scena l’Inquisitore ha le profondità cavernose del basso Jongmin Park (anche Frate) e viene pure da Oriente il basso Huanhong Li, allievo dell’Accademia scaraventato in scena in extremis per dare corpo tonante all’invenzione che corona la “falsità” storica dell’opera: il fantasma di Carlo V, che Verdi fu incerto nell’accogliere perché conclude l’opera in modo meno drammaturgico del dramma di Schiller (Filippo che conduce per mano Carlo all’Inquisitore).
Riccardo Chailly conclude con Don Carlo la “trilogia del potere” delle ultime due inaugurazioni (Macbeth nel 2021, Boris Godunov nel ’22) e corona i primi dieci anni della sua direzione musicale alla Scala. Misteriosi e sicuramente ingenerosi dissensi lo hanno toccato alla prima, ma la sua lettura intensa di Verdi, che sia l’aspro di Giovanna d’Arco o il maturo Don Carlo proiettato verso il futuro, costringono sempre a nuovi ascolti e riflessioni; grazie anche all’avere in buca un’orchestra che ha nelle dita i colori verdiani e “canta” in sintonia con un coro del quale Alberto Malazzi coltiva la cultura delle mezzevoci.
Ultimo, ma veramente ultimo, arriva lo spettacolo firmato da Lluìs Pasqual, in cui l’enorme struttura mobile centrale (scenografo Daniel Bianco) costringe come sempre i cantanti in proscenio come soldatini a esibire gestualità di routine. I costumi di Franca Squarciapino danno scarsa consolazione a uno spettacolo senza regia (cioè personaggi che vivono, corpi che “trasmettono”, dialoghi che infiammano, soprattutto avendo cantanti che sanno essere attori). Spettacolo nel quale un duetto fra amanti si risolve sdraiando Carlo lungo e disteso a pulire il parquet, confinando la passione e la sensualità a un unico bacio (alla fine, pensavamo non arrivasse mai), coreografando la “Canzone del velo” di Eboli con un girotondo non privo di nani (sì, Velazquez, ma non è un obbligo riprodurre un grande, se comporta rischi), che dopo gli ascensori di Livermore risolve ancora una volta i movimenti di scena in un su e giù per le scale e un aprire e chiudere cancelli nei quali perfino Filippo II sbaglia maniglia.
Perché raccontare la “storia vera” di Don Carlo(s)? Non certo per togliere qualcosa a Verdi e al suo capolavoro. Il contrario. Nel giorno in cui l’Unesco santifica il Canto Lirico italiano come “patrimonio immateriale dell’Umanità” per acclamazione botswanatica (nel senso del Botswana, paese dell’Africa del sud in cui si è celebrata), rileggere le fonti aiuta a capire fino in fondo che il miracolo dell’Opera – “inventata” dall’Italia con la Camerata dei Bardi e Monteverdi, divino quanto se non più di Verdi -, nasce senza curarsi della storia e della verosimiglianza.
“In fine”, come scriveva Verdi, l’alchimia del teatro in musica se ne frega della fedeltà ai fatti e alle parole: la sua verità cammina libera su tracciati che nessun pensiero logico prevede dove portino, prima che l’orecchio ascolti.
Foto Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala