Davide Livermore aiutato dalle ricostruzioni dello Studio Giò Forma rilegge l’opera di Donizetti con il registro della commedia all’italiana. Chailly asseconda riempendo sinfonicamente i grandi spazi sul palcoscenico.
Per scoprirsi giovane a settant’anni suonati, Don Pasquale ha dovuto attendere la dipartita dell’ingombrante figura materna: un lutto che non gli si addice più di tanto. È questo il «foco insolito» che secondo Davide Livermore divampa finalmente nell’animo del protagonista che dà il titolo al capolavoro comico di Donizetti, andato in scena ieri sera alla Scala con la direzione di Riccardo Chailly – fino al 4 maggio.
Una pantomima accompagna la Sinfonia inziale: dopo aver sepolto la madre e ricevuto le condoglianze, Pasquale si lascia cadere su una poltrona per ripercorrere in flashback il suo Edipo irrisolvibile. Tanto ormai la genitrice onnipresente non c’è più: è tempo di godersela, a patto di ignorare il castrante sguardo materno che questo povero ragazzo della terza età si sente sempre addosso, come in Edipo relitto di Woody Allen – anche se purtroppo manca il faccione della madre sospeso nella stratosfera.
L’emancipazione del protagonista deve fare i conti con le dinamiche tipiche dell’opera buffa italiana, che ha la maturità e insieme la placida, rassicurante convenzione della commedia dell’arte messa in musica. Un dottore intrigante, una giovane «semplicetta» ma «bricconcella», innamorata di un tenore che come al solito non capisce granché di quello che gli succede intorno: così si simula un matrimonio per convincere Don Pasquale ad accettarne un altro.
L’idea di Livermore è di rileggere il mezzo carattere donizettiano con l’equivalente novecentesco dei film della commedia all’italiana: la Lancia Aurelia del Sorpasso e la vespa di Vacanze romane – che però è di Wyler –, poi ancora Totò, il Fellini dei primi film, come I vitelloni, ma anche di Roma, che in effetti invade il palcoscenico nella ricostruzione fedelmente deformata dello studio Giò Forma. Lo spettacolo è tecnicamente prodigioso: Livermore fa volare automobili, ricostruisce Cinecittà e la stazione Termini, monta una sfilata di moda per il duetto in cui il dottore istruisce la sua my fair Norina e chiude l’opera in piena via Appia calando nel finale i seggiolini del calcinculo.
Non mancano nemmeno finezze di regia, sempre brillantemente seguite dai cantanti: la scena del contratto matrimoniale è spassosissima, così come la gag del fucile con cui il depresso Don Pasquale minaccia più gli altri che se stesso. Ma la sensazione è che lo spettacolo si scomponga fra le sue tante trovate, scene e controscene: qualcosa sta sempre per accadere, e il pubblico ha la certezza che l’esecuzione scenica sarà impeccabile, anche se talvolta si fa fatica a trovare non tanto la giustificazione di ciò che si vede sul palco, quanto la sua collocazione nell’economia dello spettacolo, come se, passato il flashback materno, mancasse una vera e propria chiave di lettura.
Non aiuta la monumentale scenografia, a volte sproporzionata e un po’ pesante, più da Hollywood che da Cinecittà. L’impressione è di ritrovarsi spesso fuori contesto per un’opera piccola, da salotto come Don Pasquale, con quattro parti comiche più notaio che si aggirano in spazi gattopardeschi dove non è semplice emergere. Gli splendidi costumi di Gianluca Falaschi colgono meglio i riferimenti alla Roma del neorealismo e di Cinecittà, del boom e dei suoi contrasti: sono tra i migliori visti negli ultimi anni, e non solo alla Scala.
La direzione di Chailly punta a riempire sinfonicamente i grandi spazi sul palcoscenico. Oltre ad ampliare i volumi orchestrali, il direttore ha lavorato su un suono omogeneo dell’orchestra, che a volte assume una tinta livida, perfetta per i passaggi più drammatici dell’opera nel terzo atto: ad esempio dopo il famoso schiaffo, in cui in partitura sembra comparsa la mano di Schubert. Anche il coro dei servi è magnifico, portato fin quasi alle soglie di un grand opéra, come Dom Sebastien. In altre scene più distese e squisitamente comiche dell’opera l’orchestra è sembrata troppo in primo piano, con una presenza ponderosa per accompagnare quelle semplici situazioni da commedia che la partitura seguirebbe invece con misura più teatrale.
Ottimo il cast, a partire da Ambrogio Maestri a suo agio in questa parte finto comica che risolve restando nei pressi del suo Falstaff, ma con intenzioni più donizettiane. Magnifiche prove di Rosa Feola come Norina e Mattia Olivieri come Malatesta, anche attori con abilità e talento eccezionali. Meno brillante ma dignitosa la prova di René Barbera come Ernesto, più nella serenata del terzo atto che in quella furtiva lagrima di città che è “Cercherò lontana terra”.
Fotografie: Brescia/Amisano Teatro alla Scala