Non solo repertorio classico. A MITO SettembreMusica la pianista venezuelana dopo aver eseguito Beethoven e Rachmaninov si è lanciata in alcune improvvisazioni suggerite dal pubblico. Con successo
Finalmente, dopo un paio d’anni di frontiere chiuse per l’emergenza sanitaria, si respira aria nuova anche al Teatro Dal Verme. E domenica 12, per MITO SettembreMusica, il vento ha soffiato dal lontano Venezuela portando con sé una pianista unica nel suo genere, Gabriela Montero.
Ma unica in che senso? Ebbene Montero, come si preoccupa di spiegare la solerte presentatrice al pubblico in sala, riprende una tradizione ormai dimenticata della nostra storia musicale, quella dell’improvvisazione. Attenti dunque, avverte la presentatrice, perché dopo le due sonate di repertorio, vi verrà chiesto di proporre dei temi musicali alla pianista, che si cimenterà in improvvisazioni, proprio come fecero Mozart e Clementi davanti a Giuseppe II d’Austria.
Le luci si abbassano e, accolta dagli applausi, entra Gabriela. Non c’è spartito sul pianoforte, tutto sarà a memoria perché per suonare come lei non ci si può perdere dietro alle pagine scritte. Apre il concerto la celebre Waldstein di Beethoven. Montero respira con le note, parla attraverso il pianoforte. La naturalezza di un enfant prodige perfettamente a suo agio con il proprio strumento. La sonata la si conosce fin troppo bene, non serve raccontare quanto sia meravigliosa; quello che va menzionato è come la pianista si immerga – e noi con lei – in quelle pagine. La sonata pare lunghissima e allo stesso tempo brevissima, avvolta da una magia che solo la musica – arte del tempo – sa creare. La Montero esprime un intero mondo emotivo in ogni singola frase, dando la percezione che il tempo si dilati all’infinito e che ogni momento sia lungo una vita. Un attimo e, terminata la sonata, i mondi si richiudono. E come di un romanzo che ci ha appassionati, vorresti non fosse finita.
“Farò una piccola improvvisazione per far calare un po’ la tensione.” Così la pianista accenna un breve stacco musicale del tutto estemporaneo prima del secondo grande macigno della serata, la Sonata n. 2 di Rachmaninov. Certo, l’approccio appare un po’ informale e forse qualche purista potrebbe storcere il naso, anche se l’improvvisazione è in uno stile nemmeno troppo distante dall’autore russo.
Altrettanto sicuramente si potrebbe dire che in questo modo si perde la sacralità dell’opera. Eppure il risultato è meraviglioso e naturale. E lo spirito fresco ed energico della musicista pervade ora anche la melodia del grande russo, è ciò che la caratterizza. Il ritmo della musica prende facilmente il sopravvento, irrefrenabile. Il tocco è superbo perché capace di sfumature: delicata e graziosa ma, soprattutto, vivace e aggressiva, registro nel quale la musicista di Caracas sembra davvero non avere eguali. Nella rapidità dei passaggi sta la sua forza. Parlare di tecnica appare superfluo, le sue mani scivolano sui tasti senza sforzo per raggiungere il cuore delle cose. Sensazionale.
Terminato Rachmaninov, Montero afferra il microfono per raccontare di come il suo habitat musicale sia l’improvvisazione. Fin da bambina il “luogo” dove si sente più a suo agio, nonostante i suoi primi maestri di pianoforte la scoraggiassero. Non c’è dubbio: la pianista si dedica all’improvvisazione come pochi sanno fare al giorno d’oggi.
I temi che il pubblico propone a questo punto della serata sono: Va pensiero, Rondò alla turca, O sole mio, per finire con un Tico Tico no fubá. Arrangiati con stilemi e dialetti presi da ogni parte della tradizione musicale, da passaggi armonici dal sapore barocco fino ad arrivare ad un momento in stile ragtime nel rondò mozartiano.
La sua improvvisazione si spinge oltre le convenzioni del jazz – luogo principe della creazione estemporanea – in un mondo diverso, più intimo verrebbe da dire. Certo non si può non pensare a Keith Jarrett e al suo modo di vivere il concerto del piano recital ma Montero sceglie di attenersi a forme più codificate, in cui la sua libertà è limitata (o scatenata) dal tema proposto. Un centro di gravità dal quale non si sfugge, attorno al quale si orbita magari in nuove tonalità o con nuove variazioni. Il finale può essere evidenziato da pedali di tonica proprio come nelle fughe bachiane, ma nel mezzo siamo passati attraverso armonie romantiche. Insomma, Montero ci ha portati nel suo personalissimo mondo musicale in cui Beethoven e Rachmaninov sembrano più umani, in cui tutto sembra più vicino e intimo.
Immagine di copertina di Lorenza Daverio