Le acrobate del lavoro di oggi, lo spazio domestico, il tempo, il reddito, nel libro di Sandra Burchi. Instabili, ma non lamentose e capaci di decidere per sé
Sono giornaliste, graphic designer, progettiste di interni, vivaiste, cooperanti. Dieci donne che raccontano l’esperienza del lavoro precario tra casa, web, fuori: è questo, inquadrato in un discorso più generale sul lavoro oggi, il tema di Ripartire da casa. Lavori e reti dello spazio domestico, ultimo libro della sociologa Sandra Burchi.
Le donne che qui si raccontano sono tra loro diverse, per professione, per età, per essere state le prime sperimentatrici di forme di flessibilità («sono una storica della precarietà», dice Anna) o viceversa nate dentro queste forme, diverse anche per la natura di quell’andirivieni tra dentro e fuori che le caratterizza (chi un po’ più fuori, chi un po’ più dentro), ma sono unite dalla percezione di sé come testimoni di una trasformazione radicale del mercato e dell’organizzazione del lavoro, che ha visto il tramonto del sistema fordista e l’aprirsi di forme di lavoro ancora acrobatiche, non definite, non riconosciute socialmente, quei lavori al margine, che spesso storicamente le donne hanno praticato, ma che oggi si pongono al contrario al centro di una nuova riflessione sul lavoro. E non è un caso che il titolo, come scrive Sandra Burchi nella prefazione, non sia un tornare a casa, ma un ripartire da casa. E non è un caso che siano donne.
E non è un caso che il primo capitolo del libro sia centrato sugli spazi: della casa, del fuori e del web. Ma soprattutto della casa. Perché la casa non è solo uno spazio materiale entro cui collocare il proprio lavoro (anche se sembrano particolarmente ben riuscite e suggestive le trasformazioni di questo spazio, qui raccontate anche con ironia, nei successivi traslochi e ritorni da una stanza all’altra e da una sistemazione all’altra, con la sedia incastrata tra libreria, stendini e tavolo, con il letto trasformato in divano per simulare una parvenza di studio nei contatti via skype ecc. ecc.), è anche uno spazio simbolico che sembra trasformarsi da spazio di confinamento e di domesticazione delle donne a spazio di resistenza o, come scrive Burchi, a «un modo per forzare limiti e chiusure».
E poi oltre agli spazi, si raccontano i tempi, difficili da mettere insieme, convergenti e frastornati per consegne contemporanee, o laschi e vuoti, difficilmente misurabili con criteri di mercato, eternamente recuperabili se non sottoposti anch’essi a una sorta di tabella temporale. E si raccontano le difficoltà (la difficoltà di darsi un prezzo, di misurare il proprio lavoro, occuparsi della contabilità….)
E si racconta il difficile rapporto con la fisicità del corpo, con l’assenza del corpo in questo stare in rete, vicini, ma lontani, del vuoto emotivo che lascia un corpo in presenza quando non c’è. Si mette in mostra dunque anche l’eccesso: l’eccessiva esposizione in rete, l’eccessiva richiesta di tempo, l’eccessiva immobilità dei corpi, l’eccessiva solitudine, l’eccessiva svalutazione economica, ecc.
Ma soprattutto si racconta il piacere di costruire qualcosa che fa parte della costruzione della propria professionalità, ma anche della costruzione della propria vita. Ed è appunto il piacere, la soddisfazione di sé che percorre come un filo rosso tutto il libro l’aspetto che vorrei sottolineare, come qualcosa di radicalmente nuovo, sorgivo rispetto alla lamentazione, anche giusta, sensata, del mare di precarietà in cui siamo sommersi.
Un piacere non superficiale, un piacere costruito, che lancia un segnale, che vuole essere un ponte verso un futuro possibile e non miserabile.
Perchè il libro non è solo una narrazione (e vorrei sottolineare, molto bella, molto riuscita) di storie nuove di vita e di lavoro: è di più e prefigura domande nuove rispetto all’assetto sociale più complessivo. E sostanzialmente si chiede e chiede a tutti noi se vogliamo interpretarle come una nuova modalità di sfruttamento, una forma di assorbimento del potenziale sovversivo della differenza o se tendiamo a vederle come la rappresentazione di una nuova capacità dei soggetti di decidere da sé, di trovare, pur nello svantaggio, forme di autogoverno, di autodeterminazione.
Io propendo, con l’autrice, per questa seconda ipotesi, anche senza dimenticare lo scenario generale di una esposizione al costante rischio di instabilità e assenza di reddito, soprattutto dei più giovani – donne e uomini – anche con elevate capacità e competenze.
Resta da chiedersi se possano diventare non forme di resistenza ancora individualizzate, ma iniziare a delineare uno scenario sociale, che veda la valorizzazione dei lavori non standard, il riconoscimento delle professioni intellettuali e innovative e un sistema di welfare completamente nuovo, lontano dal sistema fordista o neo liberale.
Foto LeanForward