Del corso su Dostoevskij a cura di Paolo Nori prima sospeso poi riattivato dall’università Bicocca avrete, purtroppo, saputo. Ma se non avete letto ‘Sanguina ancora’ il libro che Nori ha dedicato al grande russo questo è il caldo invito a farlo. Perché racconta come di pagine che ci cambiano la vita e lo sguardo, che parlano delle e alle nostre ferite, abbiamo bisogno in ogni tempo
Le tragedie non impediscono le farse. Nella tragedia che è l’invasione russa dell’Ucraina, si è innestata una farsa milanese all’insegna dell’eccesso di zelo e del politically correct. All’Università Bicocca hanno sospeso il corso di Paolo Nori su Dostoevskij, salvo fare rapidamente marcia indietro chiedendo che ci fosse un confronto fra il grande Fedor e gli scrittori ucraini, come se un corso di letteratura fosse una puntata di Tribuna politica governata dalla par condicio. Anche le buone cause hanno i loro cretini. I difensori accademici della democrazia e dell’Occidente, a Milano, non potendo impallinare qualche soldato russo, avevano scelto eroicamente di impallinare Dostoevskij. Ma l’autore di Delitto e castigo non era un oligarca e non conosceva Vladimir Putin. E il suo esegeta Paolo Nori non siede nel consiglio di amministrazione di Gazprom. Se già è discutibile l’ultimatum del sindaco Sala al direttore d’orchestra Valerij Gergiev (posso dirlo? Gergiev sostiene Putin, ma alla Scala veniva a dirigere Cajkovskij, non a fare un comizio: siamo convinti che adottare metodi putiniani e chiudere la bocca agli scrittori, fermare la bacchetta dei direttori sia una scelta saggia o non assomigli, in modo farsesco, al “giuramento di fedeltà al duce”?), la censura all’ottimo Nori era al tempo stesso ridicola e desolante. Lo scrittore ha rifiutato l’impostazione, terrà il suo corso altrove, restano la cattiva figura dell’ateneo e la sensazione sgradevole che si stia perdendo il senso della misura. Se non lo avete letto, Sanguina ancora, il suo magnifico libro dedicato a Dostoevskij, è da leggere al volo. Io ne sono stato conquistato, provo a spiegare perché.
«A uno studente americano, una volta, hanno chiesto se avesse letto Bartleby lo scrivano e lui ha risposto: “Non di persona”. Ecco, io continuo a leggere di persona».
Con Paolo Nori, scrittore di eccentrica e spesso esilarante emilianità e traduttore dal russo fra i nostri maggiori, la chiave di lettura può essere anche una battuta, una divagazione della cui arte tiene lo scettro, un tirare in lungo e, sarei tentato di dire, un fingere di fare lo scemo per non pagare il dazio. Anche se poi, alla fine, Nori il dazio lo paga eccome. Per questo Sanguina ancora che lo scorso anno è entrato nella cinquina del Campiello, la chiave di lettura può essere la battuta che ho citato, assieme alla dicitura ‘romanzo”’ Perché il suo libro non è una vita di Dostoevskij, ma la vita del lettore Paolo Nori al quale Dostoevskij, letto da ragazzo, ha cambiato la vita.
«Delitto e castigo l’ho letto che avevo forse quindici anni, son passati ormai quarantun anni e, di quel momento in cui ho incontrato Delitto e castigo, io mi ricordo tutto; mi ricordo la stanza dov’ero, la mia stanzetta all’ultimo piano della nostra casa di campagna, mi ricordo com’ero voltato, mi ricordo l’ora del giorno, mi ricordo lo stupore di quello che stava succedendo, mi ricordo che mi chiedevo nella mia testa “E io?”».
Già, i libri che ci rivelano a noi stessi. «Quel libro, come i libri memorabili che ho incontrato nella mia vita, ha fatto diventare un momento qualsiasi tra gli innumerevoli momenti che ho passato nei cinquantasei e passa anni che sono stato al mondo un momento indimenticabile; un momento in cui ero consapevole che stavo al mondo, un momento che mi sentivo il sangue che mi pulsava dentro le vene». Non so se questi libri ci costringano a chiederci, come accade a Raskol’nikov e a Nori: «Ma io, sono come un insetto o sono come Napoleone?». Ma di sicuro «i romanzi di Tolstoj, e di Dostoevskij, sono opere d’arte perché non parlano solo “la lingua superiore dell’arte”, non rispondono solo alle “nobili necessità dell’anima”, parlano di me, delle mie miserie, delle mie paure, delle mie ferite, della mia famiglia, del mio essere solo, senza un babbo, senza una mamma, a cinquantasette anni, un ridicolo, vecchio orfano parmigiano che abita a Casalecchio di Reno».
Ecco perché un romanzo, ed ecco perché non è poi così incongruo che, per parlare di Tolstoj e di Dostoevskij, Nori parli di sé.
In un paio di passi del romanzo in cui sfodera gli artigli, lo scrittore demolisce le critiche di Nabokov (di recente ha rincarato la dose, in un’intervista rilasciata a Roberto Festa, con una battuta di quelle che ti inchiodano al muro: «Uno può essere un grande scrittore, come Nabokov, e avere delle idiosincrasie inspiegabili. Ricordo che quando Nabokov cercò di entrare a Harvard, Roman Jakobson si oppose perché non riteneva avesse grandi capacità critiche. A chi gli faceva notare che era un grande scrittore, Jakobson rispose: “Anche l’elefante è un grande animale, ma sarebbe un buon professore di zoologia?”») e soprattutto dei formalisti russi, anche se esalta la definizione di Bachtin sulla ‘polivocità’ di Dostoevskij che, quando ‘scrive male’, scrive in realtà benissimo, perché si esprime come i suoi personaggi, a ciascuno dei quali regala come Dickens una voce e un timbro inconfondibili.
Dicevo dei formalisti. Meno ingenuo e conciliante di quanto non dia a vedere, Nori dice che «a me, questi signori, son sempre sembrati della gente che si china sopra le opere letterarie come un meccanico si china sopra un motore e si chiede se funziona e perché», con il proposito «di concentrare la propria attenzione non tanto su cosa significa un’opera letteraria o sul perché è stata scritta, ma su come è fatta». Anche se poi, sul come è fatta un’opera, la consuetudine con il russo permette a Nori di bacchettare traduttori illustri come Tommaso Landolfi (il suo brano sull’incipit delle Memorie del sottosuolo è un pezzo di bravura).
E poi non è vero che questo romanzo non sia, anche e molto, la vita di Dostoevskij. Di sicuro, non è una biografia rassicurante, come non lo è il biografato. Lo scrittore russo viene ritratto, in un paragrafo di vertiginoso accumulo definitorio scandito dalle virgole come passi di marcia, «ingegnere senza vocazione, traduttore umiliato dai propri editori, genio precoce della letteratura russa, nuovo Gogol’, meglio di Gogol’, aspirante rivoluzionario miseramente scoperto e condannato a morte, graziato e mandato per dieci anni in Siberia a scontare la sua colpa, riammesso poi nella capitale, quella Pietroburgo il cui mito, con le sue opere, contribuirà a costruire, “la più astratta e premeditata città del globo terracqueo”, secondo una celebre definizione del suo uomo del sottosuolo, giocatore incapace e disperato, scrittore spiantato vittima di editori cattivi, marito innamorato di una stenografa venticinque anni più giovane di lui, padre incredulo che scrive a un amico: “Abbiate dei figli! Non c’è al mondo felicità più grande”, pazzo benedetto che mette per iscritto le domande che tutti noi ci facciamo e che non osiamo confessare a nessuno, uomo dall’aspetto insignificante, goffo, calvo, un po’ gobbo, vecchio fin da quando è giovane, uomo malato, confuso, contraddittorio, disperato, ridicolo così simile a noi, che riesce a morire nel momento del più grande successo…».
Una vita e un’opera in cui Nori si rispecchia, continuando a chiedersi perché. «Perché sanguina ancora?». E intende come quando lo lesse a quindici anni.
«Uno, mi rendo conto, potrebbe chiedermi: Ma a te piace sanguinare? In un certo senso, sì.
Nel senso che viviamo, mi sembra, in un tempo in cui valgono solo le vittorie e i vincenti, un tempo in cui il participio presente perdente non indica una condizione temporanea, è un’offesa, in un tempo in cui, se ti chiedono “Come stai?” (e te lo chiedono, continuamente), devi rispondere “Benissimo!” col punto esclamativo, in un tempo in cui devi nascondere le tue ferite e i tuoi dispiaceri, come se tu non fossi fatto di quelle, e di quelli».
E allora Nori afflitto dalla ‘ritrosogna’ (ve la andate a scoprire, assieme alla compagna Francesca ribattezzata Togliatti perché è convinta di essere ‘il migliore’ e alla figlia Battaglia) è capace di smontarsi da solo come il grande russo, ma come lui è incapace di desistere e propenso a insistere. Nori come il principe Myskin e come l’uomo del sottosuolo. Nori che ci porta a spasso, con grande sapienza colloquiale e spesso dissimulata, come se dicesse ma va’, non mi prendere troppo sul serio, sulle orme di Fëdor e dei grandi che lo hanno preceduto e accompagnato (le pagine su Puskin e Gogol’ sono magnifiche). Dostoevskij come nostro prossimo, come un vicino di casa, lo scrittore russo non avrebbe potuto ricevere omaggio più grande. È la grande arte che ci parla, consustanziale alla nostra vita. Un libro da leggere, un libro da amare. Alla faccia dei censori.
In apertura ritratto di Dostoevskij di Vasilij Peróv (1872), Galleria Tret’jakov di Mosca.