Dalla serie acclamatissima al cinema, esperimento riuscito. Downton Abbey va benissimo in sala e non delude. E per chi non si accontenta mai esce anche il ricettario di casa Crawley (piano di sopra e piano di sotto)
Si ufficializza, non tutti consenzienti, il matrimonio tra piccolo e grande schermo con l’arrivo del film ispirato dalla amata serie Downton Abbey, come un capitolo conclusivo dell’agiata vita dell’aristocratica famiglia Crawley: l’ultima parola, che teniamo segreta, a Maggie Smith che è la vera reazionaria regina dello spettacolo e, nel corso degli anni, non si attende che la sua comparsa sulla scena.
In tempi lontani erano già usciti film tratti da successi tv come Starsky and Hutch, mentre su Netflix è appena arrivato El Camino, un quasi western che suggella un’altra serie gettonatissima, Breaking Bad inquadrando il personaggio del giovane Aaron Paul, segno che le serie amate possono continuare alterando spazio e tempo. Per gli aristocratici all british il film, partito molto bene negli incassi, è come un lungo episodio della serie premiatissima (3 Golden globes, 12 Emmy awards, 6 premi Bafta) che conta sei stagioni, ora rilegate in un elegante cofanetto, e schiere di fans in tutto il mondo, grazie all’enorme complicità che il racconto prevede e prenota.
Fans, oggi inconsolabili orfani, degli attori, della casa, dei modelli, dei mobili, dei dialoghi, dei costumi, delle suppellettili ed anche di quella magnifica spaziosa cucina dove è facile far uscire manicaretti da servire in guanti bianchi. E a questo proposito, per non farci mancare nulla, esce un libro Downton Abbey. Il Ricettario ufficiale edito da Panini e curato dall’esperta Annie Gray in cui si possono trovare i piatti più consumati in Inghilterra tra il 1912 e il 1926, il periodo in cui seguiamo le vicissitudini della famiglia su cui ogni tanto aleggia il sospetto di un girotondo sociale che li metterà in un angolo.
Non accade certo nel film sequel di Michael Engler in cui dopo 52 episodi, dal 2010 al 2015, i Crawley sono in fibrillazione per il passaggio per una notte nella loro casa dei reali in viaggio, re Giorgio V e la sua signora queen Mary. Al di là dell’onore concesso alla casata, si tratta di ospitare anche tutto il gruppo che accompagna e precede i reali e quindi la servitù, i maggiordomi, le governanti che noi conosciamo bene deve mettersi a riposo e lasciare il passo. Così non sarà, e si vedrà come, quando e perché.
Come già in Metropolis, ma soprattutto in Gosford Park di Altman, sceneggiato dallo stesso Julian Fellowes che poi ha creato la serie, i lavoratori stanno nei piani sotterranei, ma coltivano una loro felicità sociale fatta di dedizione che il film non si sogna di disturbare, a parte i problemi personali che pure stavolta intervengono a creare qualche scompiglio (la scena della prima sala da ballo gay). Il film è divertente, elegante, sofisticato come la serie da cui proviene e lo si gusta a patto di sapere come stanno le cose, cos’è accaduto negli anni precedenti, chi è chi e come mai un ex chaffeur è entrato in famiglia eccetera. Comunque è altamente commestibile da un pubblico che ama ancora ascoltare dialoghi e osservare persone di questa terra, non alieni né fumetti.
E poi c’è, come sempre, il contributo di una compagnia di attori straordinaria col padre padrone Hugh Boneville, la sua signora Elizabeth McGovern e tutti gli altri, tra cui il vecchio Carson (Jim Carter) che viene richiamato in servizio, la lady progressista Merton (Penelope Wilton) e gli altri, compresi i cani, mentre la parte di re Giorgio V in visita nello Yorkshire, è di Simon Jones. La lotta all’interno del quarto stato è gestita dal regista con spirito, mentre tutti gli abitanti di Downtown si troveranno implicati nella visita reale, solo lady Violet mantiene una certa calma e lo spirito che la contraddistinguono. Le lasciamo in segreto l’ultima parola.