37esima edizione di Drodesera: il festival trentino è il punto di partenza per riannodare terre e diversità culturali. Con CollettivO CineticO, Marta Cuscunà, Alessandro Sciarroni e molti altri
Una nuova Pangea, un supercontinente ‘di ritorno’ che a distanza di milioni di anni ci costringe a fare i conti con ciò che riteniamo lontano dal nostro vivere quotidiano e che invece, volenti o nolenti, fa parte fin dalle origini del nostro stesso eco-sistema. Centrale Fies nella 37esima edizione di Drodesera fa del festival trentino il punto di partenza per riannodare terre e diversità culturali, a creare un terreno di scambio libero dove il tema della migrazione e del rapporto con l’alterità siano questioni cardine anche della prassi artistica.
Lo fa con la consueta inclinazione alla sperimentazione e all’interdisciplinarità, chiamando a raccolta alcune delle firme più interessanti del panorama nazionale e internazionale ma soprattutto attingendo alle proprie residenze. Nella centrale idroelettrica infatti si ospitano e si ‘producono’ durante l’intero arco dell’anno diversi artisti (tra gli altri, nel 2017: Carolina Valencia Caicedo, Chiara Bersani e Marco D’agostin, Rima Najdi, Leandro Nerefuh), che non solo trovano letteralmente riparo nella foresteria e nei fascinosissimi spazi della centrale ma diventano poi parte attiva nel processo di progettazione/realizzazione del festival.
È il caso di Alessandro Sciarroni, pluri-presente a Drodesera: sia con Your girl, opera all’origine della sua carriera di performer che ritorna dopo dieci anni nello “stesso spazio in cui vide la luce”, sia con CHROMA, viaggio emozionale sul tema della migrazione, e, infine, con 41 , mostra fotografica voluta dalla direttrice artistica del festival Barbara Boninsegna insieme al co-curatore, Filippo Andreatta, per offrire al pubblico una prospettiva inedita sulle varie tappe del percorso dell’artista marchigiano.
Migrare, del resto, significa sì esplorare nuove possibilità, ma anche riflettere sulle proprie origini, sul proprio cammino. Lo sanno bene Massimo Furlan e Kristof Hiriart che con Hospitalites (foto) portano letteralmente in scena alcuni abitanti della piccola cittadina basca di La Bastide Clairence, coinvolgendoli in una sorta di esperimento sociologico. “I prezzi delle case stavano diventando troppo alti a Bastide, così, per combattere il caro vita, il villaggio ha deciso di accogliere nella comunità una famiglia di migranti”: il surreale incipit-provocazione del lavoro lascia presto spazio ai racconti dei nove bastidots che, in una sorta di docu-fiction etnografica, intrecciano le proprie storie per raccontare come possa essere composita, illuminata e disposta all’accoglienza una piccola realtà, orgogliosa delle proprie tradizioni, della propria autonomia ma anche della propria ospitalità. Una parabola edificante, un exemplum, che, in tempi di Front National e trumpismi vari, serve almeno a far ben sperare, anche se in scala ridotta e senza una vera e propria lungimiranza socio-politica.
Ed è esemplare, in un certo senso, anche la storia che porta in scena Marta Cuscunà con Sorry, boys (foto in basso) – spettacolo già finalista ai Premi Ubu 2016. Anche qui all’origine del racconto c’è un fatto vero e una piccola realtà di provincia dove diciotto ragazze under 16 decidono, di comune accordo, di farsi ingravidare per dare vita a una comune autonoma tutta al femminile. Un atto scandaloso ed estremamente efficace – simile per certi aspetti alla contestazione muliebre delle Donne in parlamento di Aristofane –; un gesto che scardina il conformismo di una società perbenista (ma maschilista e avvezza alla violenza) e fa riflettere i genitori, i giovani partner delle ragazze e l’opinione pubblica tutta, su quali siano le proprie responsabilità umane, sociali, di genere.
La Cuscunà affronta la questione con il suo personalissimo linguaggio scenico, trasformando cioè i protagonisti della vicenda in “teste mozze”, sculture realizzate e animate con grande abilità dalla stessa artista. Saranno loro, appese di fronte al pubblico come trofei teatrali, a farsi portavoce di un episodio che già il cinema aveva esplorato (17 filles di Delphine Coulin e Muriel Coulin, 2011) riuscendo solo parzialmente a restituirne i chiaroscuri. Problema che si ripropone anche sul versante teatrale, dove la drammaturgia di Sorry, boys sembra più impegnata a far scorrere la narrazione, accordandola alle interessanti (ma limitate) modalità espressive delle teste, o ad assegnare colpe e responsabilità morali, semplificando le ambiguità e le implicazioni di un’impresa tanto eversiva.
Teste mozze, installazioni, mostre, esperimenti etnografici: per sopravvivere nel supercontinente di Centrale Fies occorre masticare un esperanto che mischia idiomi della tradizione con quelli del futuro, sintassi di performing & visual art con quelle della scienza. Non sorprende allora di trovare nell’Amleto di CollettivO CineticO le meccaniche e le forme di narrazione tipiche dei talent: così, mentre alcuni concorrenti scelti tra il pubblico devono dare sfoggio delle proprie doti interpretative, venendo via via stritolati dagli ingranaggi spettacolari, i rimanenti astanti sono chiamati a decretarne vita e morte, successo o fallimento, attraverso un applausometro (vi ricordate il Karaoke e quel tipo col codino, vero?). Un’interazione intimamente sadica che rivela di colpo il superproblema del supercontinente: non sono tanto i confini, o la mancanza di mezzi per attraversarli e nemmeno le differenze linguistiche a rendere instabile l’unione globale delle terre emerse, ma la natura volubile, capricciosa ed efferata dei suoi abitanti.
Immagini di Alessandro Sala