“Io capitano” di Matteo Garrone, applaudito alla Mostra di Venezia, racconta la via crucis di Seydou e Moussa attraverso l’Africa, le torture in Libia, il viaggio nel Mediterraneo su un barcone. Come accade ogni giorno nella realtà. Una parabola tersa come il cielo sopra il deserto del Sahara, che con la sua immensità impossibile da raccogliere in un’unica visione occupa la parte centrale del racconto. Un film senza retorica che non punta sui sensi di colpa e impone la riflessione. Protagonisti bravissimi
Seydou e Moussa interpretati dai giovani e bravissimi Seydou Sarr e Moustapha Fall) vivono a Dakar, in Senegal, sulla sponda dell’oceano Atlantico, ma sognano un altro mare da attraversare, il Mediterraneo, per raggiungere l’Europa e conquistare la terra promessa, dove tutti i sogni si realizzano e la vita scorre in una valle di latte e miele (e loro potrebbero riuscire a diventare famosi come musicisti rap). Un sogno che spinge i due ragazzini, appena sedicenni, a partire in Io capitano di Matteo Garrone, di nascosto dalle loro famiglie, iniziando una vera e propria odissea.
Attraverseranno infatti Mali, Niger e Libia, fino a Tripoli, prima di affrontare il Mediterraneo su un barcone consumato dalla furia degli elementi e dall’incuria degli uomini. E sarà solo l’ultima prova di una straziante via crucis, fra violenze e soprusi di ogni genere. Un cammino infernale, girone dopo girone, fino in fondo al buco nero della disperazione, ma anche una grande magica avventura, un percorso di scoperta, un doloroso viaggio di crescita. Perché il punto di vista rimane sempre quello dei due ragazzi, che non fuggono da qualcosa (la guerra, la fame, o qualche altra calamità) ma per qualcosa. Non disprezzano il loro presente, ma hanno bisogno di correre incontro al futuro. E lo troveranno. Anche se il prezzo da pagare sarà molto più alto di quello che immaginavano all’inizio, nella loro ingenuità un po’ infantile.
L’impazienza della gioventù, l’orrore del commercio di vite umane, la paura e la speranza: tutto ci viene raccontato in presa diretta, niente ci viene risparmiato, ma in nessun momento Garrone (che ha scritto la sceneggiatura insieme a Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri) dà l’impressione di volerci ricattare. Firma così un film nitido, potente, durissimo, che si nutre di realismo, non fa sconti di alcun genere, eppure si rivela a tratti capace di abbracciare il fantastico come puro e semplice bisogno di salvezza. E di perdono.
Si tratta di una manciata di immagini, in gran parte legate all’emozione abbacinante del deserto, di quel paesaggio vuoto, quasi astratto, talmente pulito e terso da sembrare incantevole a prescindere, anche quando fra la sabbia occhieggiano ossa e brandelli di vestiti. E il Sahara, con la sua immensità incomprensibile, impossibile da cogliere e raccogliere in un’unica visione coerente, non a caso occupa la parte centrale di questo film, finendo col rappresentarne in qualche misura il cuore pulsante. Un cuore che fa male, ma che i protagonisti non possono fare a meno di attraversare. E noi con loro.
Evitando ogni forma di retorica, Garrone ha realizzato un film, molto apprezzato in questi giorni alla Mostra di Venezia, che non mira a farci sentire in colpa, ma a farci riflettere: sul mondo e i suoi movimenti, su quello che succede quasi ogni giorno a due passi da casa nostra, sui sogni, le aspirazioni e i desideri che muovono gli esseri umani. Una parabola tersa come il cielo sopra il deserto, dove il tema non è la colpa ma la responsabilità, individuale e collettiva, raccontata per immagini nitide, precise, di straordinaria efficacia.
Io capitano di Matteo Garrone, con Seydou Sarr, Moustapha Fall, Issaka Sawagodo, Hichem Yacoubi, Doodou Sagna