Dürer, in bilico tra due mondi

In Arte

La grande mostra di Palazzo Reale affronta il tema dei rapporti tra Italia e Nord-Europa durante il Rinascimento attraverso la parabola di Albrecht Dürer, uno dei massimi artisti di ogni epoca. Un rapporto fatto di scambi continui ma anche di profonde distanze che solo il genio dell’artista di Norimberga poteva colmare. Ecco la nostra recensione.

L’intensa mostra che si svolge a Palazzo Reale a Milano affronta uno dei temi fondamentali della storia dell’arte: i rapporti, gli scambi, le influenze tra l’Europa a nord delle Alpi e l’Italia. E pone la questione cruciale se e quanto questi due mondi fossero diversi o, secondo la storiografia idealistica, quasi opposti. Figura centrale di questo confronto – anzi vero e proprio trait d’union dei due mondi – è stato Albrecht Dürer.

Il maestro di Norimberga (1471-1528) è stato certamente il più “italiano” dei pittori tedeschi. Le sue analogie con Leonardo da Vinci sono notevoli: anch’egli non conosceva il latino, non era cioè per la considerazione dell’epoca un vero “intellettuale”. E con Leonardo, Dürer aveva molti punti in comune: un’attrazione per il mondo circostante, una sensibilità per la natura, una definizione della bellezza che insisteva soprattutto sulle proporzioni. Ne è una specie di controparte.

Albrecht Dürer, Adorazione dei Magi, 1504, Firenze, Uffizi

Se ripenso alla spettacolare mostra tenuta alle scuderie del Quirinale poco più di dieci anni fa, Dürer e l’Italia, questa di Milano è più rigorosa. Mette innanzitutto in dubbio la veridicità del mitico “primo” viaggio a Venezia del 1494-95 e frena sulla romantica convinzione che proprio in quel viaggio nascano le prime vedute realistiche delle città, che sia cioè da ascrivere totalmente al pittore di Norimberga l’invenzione del paesaggio moderno.

In effetti prove certe di questo viaggio non ce ne sono e anzi la storia dell’arte ne introduce il mito soltanto nella seconda metà dell’Ottocento (provvede lo storico Hermann Grimm nel 1865, per esattezza). L’influenza – evidentissima – dell’Italia in Dürer è quindi fatta derivare dal forte vento umanista che dai grandi centri di Firenze, Venezia, Bologna, spiravano verso il nord.

E da un dialogo – in definitiva incessante – che coinvolgeva la pittura europea fin dai tempi di van Eyck.

Dürer è amico dell’umanista Celtis; sempre a Norimberga il collezionista Pirckheimer metteva a disposizione di molti la sua ricca collezione di dipinti e incisioni italiane; soprattutto Dürer comincia la sua attività artistica come incisore presso il mitico tipografo Koberger, suo padrino nonché editore delle stupefacenti Cronache di Norimberga (con 1809 xilografie), i cui contatti con Venezia dovevano essere fittissimi.

Albrecht Dürer, La Madonna della scimmia, 1498 circa

La mostra – ed è uno degli aspetti più interessanti – sfata quindi il mito di una Germania “gotica” e di un’Italia “classica”: gli scambi sono in entrambi i sensi e ne fa fede, all’inizio del percorso, la stupenda veduta di Venezia disegnata da Jacopo de’ Barabari (che fu a servizio di Massimiliano I) e stampata dal norimberghese Kolbe.

Ma indubbiamente quando Dürer arriva – con certezza – a Venezia nel 1505 sta cercando qualcosa che ancora nel nord non c’è, o si intravede appena.

Cerca la capacità compositiva di Bellini, cerca la “teoria italiana” di Alberti e Pacioli, la prospettiva di Mantegna (artista che aveva studiato e copiato). Cerca soprattutto la psicologia che l’arte italiana ha cominciato a infondere nelle sue opere d’arte. E la sua straordinaria misura.

Albrecht Dürer, Ritratto a mezzo busto di una giovane veneziana, 1505

La mostra è divisa in sei sezioni. La prima focalizza l’incontro con Venezia in cui sono presenti i suoi primi capolavori influenzati dalla composizione italiana come l’Adorazione dei Magi, la Pala del Rosario (qui nella copia secentesca del Kunsthistorisches Museum di Vienna. L’originale si trova a Praga) messa a confronto con la Pala Barbarigo di Giovanni Bellini (posti a fianco i due grandi dipinti costituiscono un momento francamente emozionante), e il bellissimo Cristo tra i dottori in dialogo con Vivarini e Carpaccio.

La seconda sezione, dal titolo “Geometria, misura, architettura”, sottolinea la ricerca di Dürer – che studierà a Bologna la prospettiva – della visione italiana, e propone tra l’altro il confronto con il San Gerolamo e gli studi di cavalli di Leonardo. Ricerca che sfocerà nelle magnifiche serie di incisioni della Porta dell’Onore e Il grande carro trionfale dedicati all’Imperatore Massimiliano I.

Durer, Albrecht, Cristo tra i dottori, 1506, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza.

 

La successiva sezione dedicata alla natura rimarca un momento – se non il momento – fondamentale del percorso dell’arte del periodo: sia il primo a dipingere il paesaggio moderno Altdorfer o Dürer, poco importa in definitiva.

Quello che ci interessa è che, alla fine del Quattrocento, la ricerca cambia prospettiva. Diventa una esplorazione del vero. Gli studi della natura diventano precisi, un mezzo di verificare la realtà, misurarla, verificarla. Non è soltanto topografia: tra artista, individuo e realtà scompaiono i filtri.

Un fenomeno analogo si svolge proprio a Venezia nel 1501: Aldo Manuzio pubblica, in un nuovo formato e con nuovi caratteri, i classici latini e greci senza commento. Tra studioso, ricercatore, artista e la realtà che li circonda scompaiono mediazioni, simbologie, filtri.

Albrecht Dürer, Anatra morta, 1502 circa, Lisbona, Calouste Gulbenkian Museum

Questa ricerca prosegue con la sezione successiva, dedicata al ritratto. Anche qui tra artista e soggetto si instaura un rapporto nuovo. L’introspezione con cui l’artista guarda ai propri soggetti è finalmente quella con cui un uomo guarda a un altro uomo al di là di ruoli, cariche, o della gilda cui appartiene. A fianco degli emozionanti ritratti di Dürer (neanche un autoritratto però, peccato) scorrono i dipinti di Previtali, Lotto, Andrea Solario.

E manca in mostra (ma non nel catalogo) il ritratto di Erasmo, l’altra grande figura che volle porsi come ponte tra le due culture.

Dopo una doverosa e necessaria sezione dedicata al Dürer incisore – sono presenti pressoché tutti i suoi più grandi capolavori, dalla Melancholia ai cicli cristologici – l’ultima, e più controversa, sezione riguarda il classico e le sue alternative.

Albrecht Dürer, Melancolia, 1515

È questa la sezione più significativa non per la qualità delle opere esposte – che in tutta la mostra sono bellissime e appropriate – ma perché racchiude una specie di giudizio sull’opera di Dürer e sul senso della sua missione. Riuscì nel suo intento di ponte tra due mondi?

Ovviamente no. Se la mediazione di Dürer fu essenziale per sprovincializzare la pittura tedesca, non ebbe mai ragione della sua inevitabile vocazione anticlassica: Cranach, Hans Baldung Grien, Wolf Huber, sebbene apprendessero certi canoni italiani, rimasero fondamentalmente tedeschi.

A sottolinearlo sono proprio due opere italiane.

Marcantonio Raimondi, Il sogno, 1506-1508, Venezia, Museo Correr

La prima è la più nordica tra le opere che ci sono rimaste di Giorgione, il più classico autore del periodo, Ritratto di vecchia: con il suo sguardo coinvolgente della donna e il cartiglio che recita col tempo mostra anche in un soggetto così naturalistico la sua piena, inevitabile direi, classicità.

La seconda è una straordinaria incisione di quel magico personaggio che è Marcantonio Raimondi (grande plagiaro di Dürer, peraltro), Il sogno. Quasi un manifesto dell’inconciliabile confronto di due mondi: a sinistra due donne distese, tizianesche diremmo oggi, su uno sfondo di città sul mare. A destra alcuni mostriciattoli alla Bosch che zompettano sullo sfondo di un castello gotico in fiamme mentre uomini nudi scappano impazziti.

Una sentenza.

 

Dürer e il Rinascimento tra Germania e Italia, a cura di Bernard Aikema, Milano Palazzo Reale, fino al 24 giugno.

Immagine di copertina: Albrecht Dürer, Ritratto di religioso (Johann Dorsch?),  1516, Samuel H. Kress Collection

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