“È solo la fine del mondo” è l’ultimo film diretto dal talentuosissimo regista del Quebec che esordì a vent’anni con otto minuti di applausi al Festival di Cannes, e a maggio ci è tornato vincendo a metà con Jean Luc Godard il Premio Speciale della Giuria. Louis (Gaspar Ulliel, finalmente in primo piano) “torna a casa” dopo un’assenza di dodici anni per ritrovare croci e delizie nel rapporto con la madre (Nathalie Baye), ma anche l’iracondia del fratello (Vincent Cassel) con l’affascinante moglie (Marion Cotillard) e la curiosità della sorella, “abbandonata” quand’era ancora piccola (Léa Seydoux)
C’è tutto il meglio di Xavier Dolan in È solo la fine del mondo. Una chiosa al suo cinema, alla scalata all’olimpo di un ragazzino del Quebec che a soli 16 anni scrisse una sceneggiatura, J’ai tué ma mere, accolta quattro anni dopo da otto minuti di standing ovation a Cannes. Un’opera che è il banco di prova di una regia divenuta tanto adulta da farsi algida, fredda, dove il risultato è indubbiamente il più teorico e studiato della sua filmografia, scevro degli eroici furori della produzione “giovanile”. La visceralità senza inibizioni e l’assolutezza di sentimenti ed emozioni che avevano caratterizzato pellicole come Mommy o Laurence Anyways lasciano ora il passo a un’opera studiata a tavolino, matematica nelle reazioni che suscita, una sorta di geometria delle emozioni.
La solitudine, la madre e l’incomunicabilità. Tre meste signore, tre sentieri interrotti che tornano con insistenza anche in questo adattamento per il grande schermo dell’omonima pièce autobiografica di Jean-Luc Lagarce, uno degli autori di teatro oggi più rappresentati in Francia. Un circolo vizioso di voglia di auto superamento, solo minimamente appagato dal premio speciale della Giuria di Cannes 2016 al film, il secondo dopo quello del 2014 per Mommy, allora diviso ex aequo con Jean-Luc Godard, che nonostante i molti rimandi stilistici e fotografici Dolan sostiene di non amare.
Un cast di talenti francesi nuovi e vecchi per questo nuovo esempio di cinema teatrale (o teatro cinematografico?): Nathalie Baye, che dopo Laurance Anyways torna al ruolo di madre-spettatrice, un arrabbiatissimo Vincent Cassel, la piacevole Marion Cotillard, l’esuberante Léa Seydoux e un Gaspard Ulliel che si fa finalmente conoscere anche dalla distribuzione italiana. È lui a interpretare il ruolo del protagonista Louis, che dopo esser scomparso per dodici anni fa ritorno a casa, da quella famiglia con cui ha mantenuto un flebile rapporto fatto di cartoline d’auguri a Natale, e che di lui conosce solo l’immagine offerta dai giornali, quella di un affermato scrittore e sceneggiatore. Del resto, anche Louis di loro non sa nulla di certo: sospetta, teme cose, e ne troverà conferma.
Dovrebbe essere un semplice pranzo di famiglia, non la fine del mondo, un’occasione come molte, ma tutti sanno, e si guardano bene dal dirlo, che non è così. Louis ha qualcosa da dire, vorrebbe annunciare la sua malattia (di cui non sapremo mai il nome, come nella pièce) e la prossima morte. Da isola quale si era fatto, si avvicina a quell’accozzaglia di anime che è la sua famiglia per scoprirsi orfano. Contro il ritorno del figliol prodigo si scaglia l’iracondia del fratello (immenso Cassel), cui fa da contraltare la moglie (Cotillard) che dicono essere affascinante, la curiosità di una sorella abbandonata (Seydoux) quando ancora bambina, e, soprattutto l’amore incondizionato di quella che è sua madre, a volte.
Della madre, croce e delizia, offre un ritratto finalmente maturo, in un’opera che è, come lo stesso regista ebbe a dire, a 27 anni, “la sua prima da uomo”. All’ologramma arrabbiato, irrequieto e colmo di adolescenziale rifiuto, offerto dal Dolan che vestiva i panni dell’ostile Hubert in J’ai tué ma mere), il regista, sempre più lontano dal ruolo di attore, oppone ora quello della madre mascherata, regina di un pranzo che si avvicina molto alla distopia della riunione di famiglia, già in nuce, abbozzata nel videoclip da lui realizzato per gli Indochine. La madre complice e vitale di Mommy lascia il posto alla sfinge, capostipite di quell’organizzazione di criminalità organizzata che è la (sua) famiglia. Lei che sa, come alcune battute en passant lasciano intravedere («quanto tempo ancora?»), si guarda bene dal rischiare di cadere in argomento (ma quale? L’omosessualità o la malattia?) e così si libra in fiumi di parole che celano ben più di quanto dicano. Dialoghi che sono un ping pong di battute basate sulla reticenza, dove l’ansia e il disagio dello spettatore nascono proprio dall’attesa di qualcosa che pare essere ancora lungi a venire.
Torna anche in questo Dolan l’elemento comico-grottesco, in cui nel presentare ritratti quasi macchiettistici l’autore strizza un occhiolino al surrealismo dell’eterno Luis Buñuel e al canadese Le invasioni barbariche, che propone però una visione diametralmente opposta del funereo annuncio. E si passa dalle sfuriate al non detto, dalle parole come colpi di mitraglia ai silenzi gravidi di imbarazzo di Tom à la ferme, che per clima e sottotesto dev’essere stato un utile banco di prova. Dolan mantiene il linguaggio ingannevole del testo di Lagarce, che dilaga sulla scena fino a occupare tutto lo spazio disponibile. Valanghe di parole che si diradano solo in sparuti momenti di respiro, in cui il regista azzera la narrazione con musiche e rallentamenti alla Wong Kar Wai, elementi trasversalmente presenti in tutta la sua produzione ma ora più equilibrati, maturi, scevri degli eccessi di un’estetica che stupisce ma non attecchisce, come in Les amours imaginairs. Non solo la madre, ma tutte queste anime in pena ne escono come attori sul palcoscenico, persone che, per rendere onore all’etimo parlante, sono anzitutto maschere.
In questo, l’autore si stacca dall’allure squisitamente teatrale del testo non soltanto per le brevi sequenze in auto o all’aeroporto, quanto per la messa in atto di un vero e proprio tallonamento visivo, in cui smorfie, micro-espressioni e timbri (il doppiaggio italiano è uno stupro) riescono da soli a sbrogliare la matassa, palesando come, per dirla con Ingmar Bergman, “ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia”. Come i primi piani e il 4:3 di Mommy schiacciavano e sbattevano madre e figlio l’una contro l’altro senza possibilità di fuga, ora una scenografia claustrofobica spiega più di quanto si sarebbe potuto trasmettere parlando. All’entusiasmo della pura poesia dei lavori precedenti (su tutti si ricordi la sequenza di Laurence in cui Melvin Poupaud e Suzanne Clément camminano fra vestiti colorati che cadono dal cielo accarezzandoli) si sostituisce un’intelaiatura quasi matematica in cui tutto, dal cucù ai silenzi, si fa viatico del messaggio. E non sarà certo un caso se la prima fra le canzoni ad effetto è intitolata Home Is Where It Hurts.
Il puro impulso del Dolan cui eravamo abituati viene scalzato dal non-detto, in un’atmosfera ovattata in cui due fazioni si studiano e si annusano senza dirsi assolutamente nulla, ma riuscendo comunque a colmare il vuoto di dodici anni.
Un miglioramento? Non è detto. Un giro di boa? Forse. Quel che possiamo dire con certezza è che anche questa prova è superata a pieni voti.
Just la fin du monde di Xavier Dolan con Nathalie Baye, Vincent Cassel, Marion Cotillard, Léa Seydoux, Gaspard Ulliel