Al Teatro dell’Elfo si parla ingl… americano. Da «Angels in America» a «Red», fino a «L’Eclisse» di Joyce C. Oates attualmente in scena, breve storia di un legame profondo
L’America, nei grandi sogni di Ferdinando Bruni ed Elio de Capitani, è uno spettro con cui fare i conti.
Se non altro per intuire quale sia la direzione nella quale la poetica dei due autori – e del teatro dell’Elfo più in generale – si sta snodando nell’ultimo decennio.
È curioso come l’immagine stessa di un teatro così immerso nel sostrato milanese, oggi radical oggi (pop)ular, in grado di parlare alle nicchie e anche di rivolgersi a un pubblico ben più ampio, sia nel medesimo tempo immagine-chiave di una città come Milano e, al tempo stesso, il più anglofono dei suoi teatri.
E non è un mero discorso di “contenuti”: il teatro di Bruni e de Capitani – oltre che di Francesco Frongia, come capiremo meglio nel corso del pezzo – l’America se l’è spalmata addosso. Le contraddizioni in seno al Paese più controverso e contemporaneo dei nostri modesti tempi Bruni e de Capitani le hanno sempre sapute cogliere appieno, al di là della resa finale dei loro lavori.
È da poco disponibile un interessante saggio di Laura Mariani, L’America di Elio de Capitani (Cue Press Edizioni, foto), un viaggio all’inferno e ritorno in cui si analizzano le diverse sfumature con cui l’attore-regista ha saputo incarnare personaggi diversi in ruoli diversi, tutti afferenti alle stelle e alle strisce. Menzogne, pance, rozzezze: l’intrigo americano, all’Elfo, ha abitato spazi e geometrie dalle latitudini credibili e mai banali.
Tutto aveva preso vita, più o meno, ai tempi di Angels in America: dal feroce melodramma di Tony Kushner Bruni e de Capitani sono stati in grado di partorire un’opera di culto, che ha declinato l’ortodossia del teatro americano contemporaneo rendendola vivida, altrettanto reale, in un contesto che abbraccia le fermate di Lima e Porta Venezia. Il terribile spauracchio dell’AIDS, per Kushner, in Bruni e de Capitani diventa una chiave di lettura fondamentale per accostarsi a un titolo vasto e complesso, dando vita a uno spettacolo sacrale e mortifero nel quale l’America diventa una cornice ideale, un affresco odioso di rampante aggressività, canalizzato nella figura realmente esistita di Roy Cohn, l’avvocato rapace che odia i comunisti e che viene lacerato dal virus. In una sorta di metafora anti-estetizzante, Cohn rappresenta proprio i conflitti e i segreti di un paese dai tanti volti: repubblicano, maccartista, ma anche segretamente omosessuale.
De Capitani, che coi politici ha già diviso le carni (nel 2006 è stato niente meno che Silvio B. nel Caimano di Moretti), re-interpreta questi dissidi con una ferinità pacioccona che lascia sbalorditi; ed è su questa linea che si muovono due dei suoi personaggi più riusciti degli ultimi anni. Non è un caso che sia proprio mr. Elio, ancora in uno spettacolo diretto da sé e da Ferdinando Bruni, a interpretare un’altra medaglia vanagloriosa del Paese che è nato nelle strade: il presidente Nixon di Frost/Nixon (foto in alto), acclamato – e serratissimo – dramma tutto americano di un inglese, Peter Morgan, in cui ancora una vota de Capitani ha macellato le bugie. Per non parlare, questa volta diretto in solitaria, del Willy Loman di Morte di un commesso viaggiatore, forse il testo più emblematico della drammaturgia contemporanea americana, scritto da un certo Arthur Miller: qui la bugia fa rima con il fallimento di una vita che, lentamente, abbandona gli ultimi bricioli di felicità. Una riflessione intima, quasi generazionale, che de Capitani ha cucito sul suo corpo e sul suo volere d’attore (e d’autore), con risultati – negli anni – sempre di raffinato livello.
E se la ricerca di Ferdinando Bruni è proseguita cantando le disgrazie di un’America rabbiosa, silente, mordace – basti pensare al grande successo di Rosso (foto in basso, di Luca Piva), di John Logan, sul pittore Marc Rothko, o allo Zoo di Vetro da Tennessee Williams – all’Elfo si continua senza sosta a rintracciare suggestioni dal bacino americano. Ne è un esempio, in questi giorni, L’Eclisse ispirata all’atto unico di Joyce Carol Oates. Si tratta del secondo atto unico elaborato dall’instancabile autrice nata a Lockport, che tutti si spellano a definire «prolifica» ma che in realtà andrebbe lodata più come «generativa», in quanto capace di dar vita a un linguaggio diversificato, oculato e speculare sulle tante Americhe di oggi. L’oppressione e l’angoscia borghese, temi cari a una scrittrice che delle nevrosi urbane (e post-urbane) ne hanno fatto, insieme all’eterogeneità delle forme espressive, una delle voci a solo più interessanti della letteratura contemporanea.
Secondo atto unico, si scriveva qualche riga fa, poiché L’Eclisse segue Nel buio dell’America, un altro testo teatrale che dà titolo alla raccolta che li contiene entrambi (edita da Sellerio); il capitolo finale del dittico è diretto da Francesco Frongia, che mette in scena un’opera sentimentale in pieno stile Oates – dopo aver diretto nel 2010 la prima parte.
Sulle scene, che ricordano ieratici, soffici ambienti radical chic che ora irritano, ora emanano protezione, Frongia gioca con le sue attrici, Ida Marinelli e Elena Ghiaurov, che offrono un ritratto sconsolante e parossistico di famiglia in interno. C’è chi parla di attacco caustico alle contraddizioni della società, ma l’Eclissi di Oates (foto in basso) – e di Frongia – va presa per quel che è: una storia di famiglia, che riesce a essere brillante sì come amara. Nel suo nucleo, come all’interno e all’esterno di una noce, circolano tutti gli strati possibili e immaginabili di un rapporto famigliare a due. L’amore e l’odio, l’incomprensione e la vicinanza, l’angoscia e la serenità. Sullo sfondo, molto sullo sfondo, il ricordo sfocato di un padre inesistente, una “faccia ordinaria”, dal destino incerto. E un clima da post-estetismo reaganiano che lascia tutti con un vago sentore di incompletezza sulle bocche.
«L’eclisse che racconta con dialoghi e situazioni quotidiane il passaggio dalla luce all’ombra nella mente umana», dichiara il regista. E la sua indagine si muove proprio su questi iati crepuscolari che regolano la nostra stasi sul mondo, e (nel caso specifico) quella dei personaggi principali: Muriel, mamma eccentrica, e Stephanie, figlia stanca e irritata dalle follie della poco illustre genitrice. La seconda, femminista, è in odore di salto di carriera; la prima, tutt’al più, in odore di demenza senile. E di un forte, odoroso sintomo di paranoia.
Il loro legame è una trappola per entrambe, trascinata ai limiti del paradosso: ognuna cerca di catturare l’altra e limitarne le libertà, in una bizzarra guerra tra povere che, riletta ai tempi di Clinton-Trump, getta un attraente fascio di luce sulle contraddizioni di un popolo che non ama esporsi secondo un’unica visione. Ma ama mistificare, sottendere, non dire in maniera troppo evidente.
E sulle note di un tango finale (e liberatorio, e onirico, e immaginifico…) si diletta con le luci, in maniera intelligente, anche lo spettacolo di Frongia: fende l’atmosfera ma non “rivela” le contraddizioni, no. Le rende, se possibile, ancora più accentuate, vivide nel ricordo di un dolore, pressanti nella durezza del presente. Anche questo è America. Anche questo è America, filtrata dagli occhi di Frongia. E, s’intende, da quelli dell’Elfo.
(foto in evidenza di Luca Piva)
L’Eclisse, di Joyce Carol Oates, regia di Francesco Frongia, al teatro dell’Elfo fino al 4 dicembre