Ecco un altro appuntamento con la nostra rubrica dedicata agli artisti emergenti. Effe Punto, alias Filippo Cecconi, ci ha raccontato in questa lunga intervista il suo nuovo lavoro “Coccodrilli”
Per qualcuno è un audace, per altri uno dei tanti poveri diavoli che cercano di farsi strada nel mondo suonando. Certo è che Effe Punto – un passato da Ministro aggiunto, volto noto del Magnolia prima e del Santeria Social Club poi – non sembra temere giudizi e tanto meno i bilanci. Ce lo rivela anche il titolo del suo ultimo album Coccodrilli, riferimento ironico a quei necrologi anticipati che i giornalisti preparano per le persone degne di nota. A popolare le canzoni di Effe, alias Filippo Cecconi, è allora tutto un campionario di inni al perdersi: titoli di coda in sale cinematografiche buie, sigle del telegiornale la domenica sera, salti nel vuoto del cielo, fotografie un po’ sbiadite dei tempi che furono tornate in mano per caso.
Un procedere à rebours quello di Coccodrilli, forse perché cominciando dalla fine si hanno le idee un po’ più chiare e, tirate le somme, ci si può perfino permettere il lusso di scherzare sul “latte versato”, proprio o altrui. Ecco come nascono queste sedici densissime tracce edite da Labellascheggia, che, ascolto dopo ascolto, continuano a rivelare dettagli, a regalare piccole sorprese, ma anche a stazionare in testa, diventando impreviste evasioni dal traffico di Milano, quando, non si sa come, ci si scopre a cantarle a squarciagola per strada. Insomma prima che per lui o per voi (destino non voglia!) sia davvero troppo tardi, il consiglio è quello di andare a sentirlo, magari già il 13 aprile al circolo Ohibò o in una delle altre date in cui Effe – così lo chiamano gli amici – si esibirà nel minitour di Coccodrilli.
Coccodrilli: come gli articoli commemorativi che si scrivono in anticipo per quando morirà qualcuno. Cosa sta venendo a mancare nella musica italiana?
Forse un po’ di sana pesantezza. Oggi, nella musica e non solo, prevale quell’esser lievi che è – ed è giusto che sia – parte essenziale delle nostre giornate, ma che, prendendo il sopravvento, sbilancia un po’ le cose, spogliandoci della capacità di elaborare un discorso pieno. Sia chiaro: stiamo parlando di canzoni, di forme che, a differenza di romanzi e saggi, non devono avere bisogno di troppe spiegazioni o paratesti, se arrivano, bene, altrimenti pazienza! Ciò che intendo con pesantezza non è quindi una complessità a tutti i costi, ma un’alternativa alla leggerezza, a ciò che, musicalmente parlando, si potrebbe definire mainstream.
Si tratta quindi di una sorta di tributo alla musica indipendente?
In un certo senso sì. Ho come l’impressione che quella che un tempo si definiva musica alternativa, indipendente, abbia ormai la tendenza a ricercare quasi spasmodicamente il mainstream, ad ambire a ciò che ti promette, finendo quindi per adottarne le stesse forme, le stesse modalità facili, immediate, leggere appunto. Di qui la necessità di fare della pesantezza una delle chiavi del disco: volevo che rappresentasse, e quindi celebrasse, ciò che un tempo voleva essere la musica alternativa. L’intento non è esaltare una nicchia musicale, la scena alternativa intesa come comfort zone dove contarsi e sentirsi un po’ più a casa, ma sottolineare semmai che la pesantezza è da sempre, nel grande flusso di corsi e ricorsi e perfino nelle stagnazioni storiche, una componente essenziale della vita, dell’arte e della musica. Farla sparire sarebbe un impoverimento.
In una galassia discografica che sembra essersi disintegrata, trasformata in una realtà puntiforme dove a prevalere sono i pezzi singoli, c’è ancora spazio per un intero concept album come Coccodrilli?
Fare un concept album oggi è sicuramente una provocazione, così come lo è fare un disco di sedici tracce che dura circa un’ora. In molti, prima che uscisse, mi hanno gentilmente sconsigliato, facendomi notare che una selezione ridotta e anche un po’ più mirata dei pezzi, avrebbe favorito o, per meglio dire, facilitato l’ascolto ‘reale’ e la diffusione del prodotto. Al giorno d’oggi, un’ora di ascolto è vista come una richiesta onerosa, sia in termini di attenzione che di tempo. Una richiesta difficile da fare perfino a chi ti è vicino o a chi si occupa di musica per professione. E infatti nell’accoglienza ho incontrato una certa resistenza anche a livello di piccoli network. Eppure, in un certo senso, mi interessava proprio questo: verificare cioè come a livello di ricezione non esista più una grande differenza tra ascoltatore comune, produzione e perfino critica, quella parte cioè a cui spetterebbe il ruolo fondamentale della mediazione. Tutti ormai cavalchiamo solo formule, format e stili rodati, che sappiamo funzionare, e quasi più nessuno sembra avere la volontà di intercedere per quegli oggetti culturali che, a causa della loro forma “altra”, non funzionano del tutto a livello commerciale, diventando perciò difficili da collocare, anche fisicamente, negli spazi dedicati alla musica (trasmissioni radiofoniche, rubriche ecc.). Coccodrilli è quindi una provocazione che è andata a buon fine, ma che, naturalmente, mi si ritorce contro!
Che gli anni ottanta siano tornati di moda è una certezza ormai da qualche anno, lo abbiamo visto con Stranger Things ma non solo. Coccodrilli sembra occhieggiare proprio a quegli anni: sei anche tu vittima del revival?
Il revival è certamente un tema cardine in Coccodrilli, ma non come ce lo si aspetterebbe. Una delle “morti” di cui racconta il disco è infatti la scomparsa dell’immaginario proprio in favore di una rievocazione nostalgica che interessa da vicino proprio la mia generazione che in quegli anni ci è nata. Se oggi gli anni ottanta tornano prepotentemente, non lo fanno solo nelle serie televisive ma anche nelle sonorità, nella riscoperta infantile delle collezioni, delle atmosfere, del merchandising di quegli anni. A ratificare, in un certo senso, che quell’epoca ha segnato il grande inizio della trasformazione del nostro immaginario in un surrogato: quello di un immaginario hollywoodiano, a stelle e strisce, ben diffuso da quei teen e adventure movie che hanno popolato la mia infanzia. È vero, Coccodrilli si riferisce a quegli anni, ma contesta la nostalgia e il revival nel suo essere riferimento conformista, atteggiamento consolatorio e scientemente inutile. Se la nostalgia fosse utile infatti ci spingerebbe a interrogarci su alcune questioni molto fastidiose e sgradevoli rispetto a ciò che non si è stati, a ciò che non si è fatto, alla nostra incapacità di resistere. E invece si limita a citare.
Più che di metodo, la tua sembra una critica ideologica. Definiresti Coccodrilli un disco politico?
Sicuramente sì: raccontare questa parabola dell’immaginario significa raccontare un processo politico. Col cambio di immaginario si è innescata quella delegittimazione e poi quella sfiducia nella politica che ha portato i trentenni-quarantenni di oggi ad abbandonare quel pezzo della propria formazione “sentimentale” che è l’attività politica, intesa come impegno da un punto di vista fattivo e non solo come ambizione personale. A cominciare da quegli anni, la politica è stata fatta uscire dal nostro panorama interiore: non solo non era più un immaginario vincente ma è stata fatta apparire poco credibile in termini di risultati, è diventata un immaginario noioso, in bianco e nero. E lì è arrivato Berlusconi a fare da traghettatore, a portarci finalmente un immaginario a colori: tutti noi, al di là delle nostre storie personali, volenti o nolenti, siamo finiti all’interno di quel bacino d’utenza, trasformati in consumatori abituali di prodotti determinati, premasticati, escludendo dal nostro immaginario la politica. Nel mio percorso personale ho sempre pensato che il G8 di Genova, con la morte di Carlo Giuliani, fosse l’episodio chiave che ha sancito il punto di non ritorno, la fine delle grandi ideologie per la mia generazione. È uno spartiacque, motivo per cui ho messo Carlo circa a metà disco.
Nel contestare il revival, ti sei avvalso di molte sonorità eighties, a cominciare da un imperante uso dei synth. Quali strumenti hai scelto e come hai lavorato per cercare una tua autonomia musicale?
Innanzitutto suonando ogni strumento, o quasi, in prima persona. Nella produzione musicale, la sfida e la ricerca sono state infatti di non utilizzare i software instruments. Ormai ci sono plugin che replicano fedelmente non solo sonorità “generiche”, ma anche timbri di strumenti molto specifici, diventati ormai rari e introvabili, conosciuti solo dagli appassionati. Una ricchezza, non c’è che dire! Questa disponibilità assoluta però mi metteva un po’ d’ansia: nella creazione di una canzone esiste sempre uno strumento più giusto, il timbro più adatto, la peculiarità più peculiare. Ho preferito quindi recuperare subito tutti quegli di strumenti che ritenevo sufficienti alla produzione del disco e poi me li sono fatti bastare. Si tratta per lo più di sintetizzatori che vanno grosso modo da fine anni settanta a inizio anni ottanta: synth giapponesi della Korg e della Roland, e poi i Moog americani e gli italianissimi Crumar – un piccolo artigiano che insieme a Farfisa nei primi anni Settanta si mise a fare organetti elettrici. Sono loro il vero riferimento sonoro del disco. Certo non ho dimenticato neanche le chitarre ma rimangono però un elemento meno caratterizzante.
Anche la struttura del disco sembra indicare un disegno musicale preciso: cosa sono quegli “intervalli” che dividono l’ascolto in quattro sezioni?
Pensando a un ascolto ininterrotto del disco, gli intervalli volevano essere degli “spezzafame”, degli stacchi che sottraendosi dal senso e dall’ambiente sonoro delle canzoni “ufficiali”, miravano ad essere un po’ più sperimentali. A volte sembrano abbozzi indeterminati, altre lasciano intravedere forme più definite. La loro funzione è, a scelta, introduttiva o epilogativa delle quattro parti, delle quattro “stagioni” che compongono il disco. Volendo si possono collegare, due a due, in coppie complementari: Capitano e Pirati sono legati da uno scenario marittimo, dall’idea di fuga dalla realtà, che, a ben vedere, è anche fuga dalle proprie piccole responsabilità quotidiane in cerca di un amore assoluto e totalizzante, vissuto fuori dalle regole e dai vincoli sociali, tema alla base di L’amor che ci tiene e Il cuore è un missile. Nel disegno complessivo sono pensati come ulteriori piccoli “chiavistelli”, dei rimandi interni. Dei giochi, in fin dei conti.
A differenza di molti cantautori, i tuoi testi sembrano tenersi lontani dalla prosa: a tratti sembrano volutamente antinarrativi, ermetici. Eppure le espressioni che usi, l’ironia che emanano è schietta, la parola stessa sembra diretta, sincera. Ne Il Povero diavolo ad esempio ti concedi perfino qualche espressione di una volgarità volutamente naïf, che fa quasi tenerezza (“la trovò nuda con le tette al vento”, “una serie di eventi senza molto culo”). Durante la lavorazione, quante volte sei tornato sullo stile?
Trovare il modo di dire le cose è sicuramente l’operazione più difficile. Però più la parola correva genuina, più sarebbe stata vera. Quando trovavo la parola giusta, la lasciavo senza più toccarla. Non ci sono stati paletti, né rielaborazioni di concetto. Dati il progetto e un’impalcatura del disco già complessi, non avevo intenzione di lavorare sul sibillino, sull’ermetismo. Certo, alcuni pezzi sembrano complicati, ma più nel senso che nelle parole stesse. Le parole volevano e dovevano essere tutte di uso comune e tutte molto chiare. L’unica parola ambivalente che mi piaceva inserire, perché doveva essere evocativa e rappresentare la chiave del disco, era quella del titolo, quel Coccodrilli che doveva slittare dai rettili ai necrologi. In tutti i testi delle canzoni invece non ce ne è mai una ambigua; ogni parola corrisponde a se stessa nel significato, e deve averne uno solo: quello contestuale a dove è stata inserita. Se dico “farfalla” non faccio riferimento a un movimento degli anni cinquanta, non ci sono vie di fuga! Semmai il compito di aprire a un significato altro e più complesso spetta all’immagine della frase, alla sintassi e, naturalmente, alla musica.
Ci sono stati degli artisti che ti hanno influenzato particolarmente per questo disco?
I miei riferimenti musicali sono chiari. Chiari a me, intendo, e non è necessario che siano evidenti a tutti [ride ndr]! Intendo dire che non sempre quelli che saltano all’occhio sono i riferimenti più importanti. Mi piacerebbe dire che nei miei pezzi ci sento tanto i Daft Punk: apprezzo molto il loro recuperare un certo tipo di sonorità anni settanta/ottanta, il riproporre una disco-music molto europea giocando con una sorta di slittamento robotico. La loro è una musica futuribile ma recuperata dal passato, molto suonata. Per motivi simili stimo molto anche i Kraftwerk e Giorgio Moroder.
Alle spalle hai diverse vite musicali: gli anni con i Ministri, le collaborazioni con Dente, le serate dei Calamari. Cosa porti con te di queste esperienze, come hanno inciso sul disco?
Sicuramente l’esperienza con i Ministri mi ha spinto a pensare maggiormente alla dimensione live. Rispetto alla mia produzione passata con Coccodrilli ho introdotto basso e batteria, due elementi che hanno un certo peso dal vivo: volevo che il disco nei concerti avesse un impatto significativo e quindi anche una certa pressione sonora, una dinamica alta. Buona parte della mia produzione precedente è, per così dire, più sussurrata, più intima, fondata sul classico “chitarra e voce”. Coccodrilli non reggerebbe chitarra e voce. Ecco perché sul palco siamo in quattro [Jacopo Tarantino alle tastiere, Giacomo Fiocchi basso e tastiera, Gianluca Gambini batteria ndr], ecco perché dal vivo suono quasi esclusivamente la chitarra elettrica. Coccodrilli va verso il rock.
Ora che il disco è finalmente uscito e sei in tour, puoi dirlo: qualche lacrima di coccodrillo?
No, direi di no. Il disco mi piace così. Se proprio devo trovarne una: avrei voluto inserire un pezzo in più. Per far diventare i pezzi diciassette. Uno schiaffo alla scaramanzia.