Peter Greenaway, regista e pittore inglese, racconta il fantastico viaggio-rivelazione, con risvolti erotici gay, del mitico autore della “Corazzata Potemkin”
Sergej Michailovic Eisenstein (1898-1948) è stretto in Italia fra due luoghi comuni che non gli rendono giustizia: da un lato il regista super-intellettuale, idolo dei cineclub, austero autore di alcuni dei film più famosi e meno visti della storia (Sciopero, Ottobre, La corazzata Potemkin); dall’altro, la distruzione di questo stesso mito operata da Paolo Villaggio in uno dei più riusciti e citati episodi della saga di Fantozzi («La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca», cosa che lo stesso Villaggio non ha mai pensato, ma vallo a spiegare ai fans del ragioniere).
È un problema che abbiamo solo noi italiani, un po’ come la lettura ideologica di Tolkien provocata dagli sciagurati “campi hobbit” neofascisti degli anni ’70: ora l’uscita di Eisenstein in Guanajuato (in Italia prudentemente tradotto Eisenstein in Messico, più facile da pronunciare) di Peter Greenaway potrebbe darci una mano a costruire un’immagine più variegata di un artista al quale i due suddetti cliché stanno molto stretti.
Chi ha studiato Eisenstein, soprattutto leggendo le sue meravigliose Memorie (Marsilio, 2006), sa che l’uomo ebbe una vita rocambolesca, e non solo dal punto di vista artistico. Greenaway si concentra giustamente su un episodio noto nei suoi risultati cinematografici (il film apocrifo Lampi sul Messico, o Que viva Mexico! che dir si voglia) ma assai meno in quelli personali. All’inizio degli anni ’30 Eisenstein fu invitato negli Stati Uniti, dove fu accolto come un dio dagli intellettuali, occhiutamente spiato dall’Fbi (veniva pur sempre da un paese comunista) e rifiutato da Hollywood. Da Los Angeles, il regista partì per un lungo viaggio in Messico, seguito dai fidi collaboratori Grigorij Aleksandrov (futuro regista) e Eduard Tissé (operatore sublime).
Greenaway racconta questo”trip” (la parola è giusta, in tutti i sensi) da due punti di vista. Uno è quello emotivo, diciamo pure erotico: a contatto con una natura tropicale e un’umanità calda e disinvolta, Eisenstein scopre l’omosessualità e la vive come un’incessante festa mobile, per citare un altro intellettuale (non gay!) molto affascinato dai paesi “latini”, Ernest Hemingway. L’altro, forse più interessante, riguarda un aspetto frequentemente rimosso della creatività: il rapporto con il potere.
Greenaway è affascinato dal concetto di committenza, fin dai tempi di Compton House, Il ventre dell’architetto: la libertà a termine di cui in Messico gode Eisenstein provoca un’esplosione creativa con risvolti sorprendenti. Da un lato mette mano a un lavoro che non riuscirà mai a finire (il citato film messicano), dall’altro, le continue telefonate a Mosca nascondono un rimpianto (paradossale, ma neanche tanto) per il rigido controllo che l’apparato sovietico esercitava su di lui. È come se Eisenstein sentisse la mancanza non tanto di Stalin e dei suoi sgherri, ma del “limite” che le direttive del partito imponevano al suo lavoro. I limiti, in arte, possono diventare stimoli alla creazione. E un ex pittore come Greenaway lo sa bene.
Eisenstein in Messico è un film eroticamente spudorato, coloratissimo, divertente: il migliore di Greenaway dai tempi di L’ultima tempesta, e parliamo di quasi 25 anni fa! L’uso dello split-screen e delle fotografie d’epoca (a volte vere, a volte ricreate) dà sempre la bizzarra impressione di trovarsi di fronte a una versione colta del catalogo Postalmarket, ma forse persino quest’idea a Eisenstein non sarebbe dispiaciuta.
Ed è confortante sapere che il feeling continua: stando ai siti specializzati, Greenaway starebbe lavorando a una sorta di seguito, o di film parallelo, intitolato The Eisenstein Handshakes e dedicato a tutti i grandi personaggi che Sergej Michailovic incontrò (e ai quali, da pari a pari, strinse la mano: da qui la parola “handshake”) durante il suo viaggio in America. Suona stimolante, a qualche festival lo vedremo di sicuro.