Più di centosessanta persone in scena per il secondo atto del progetto di arte partecipata che parte dal Bertolazzi. Fino al 17 dicembre, ATIR e Teatro Carcano portano in scena “gli sciuri”, i signori, sperimentando metafore eleganti e di grande impatto.
Che cos’è la ricchezza? Un segreto, un miracolo, un idolo. Un mistero, come quelli di Eleusi, da celebrare e a cui votarsi nel segreto di una lingua misteriosa e antica, dove le identità scompaiono sotto l’anonimato di un cappuccio scuro. Una chiave nascosta da scovare. O forse da inventare. Il secondo appuntamento di El Nost Milan, in scena fino al 17 dicembre per il secondo anno – dei tre – del progetto di arte partecipata di Teatro Carcano con ATIR, parte da qui. Da un’assenza. Dopo “la povera gente”, e una povertà che mostrava, senza esibirsi, abbastanza da essere raccontata, il 2023 porta l’indagine alla ricchezza. A raccontare i signori. O almeno, dovrebbe. Perché, come aveva anticipato la regista, Serena Sinigaglia, se per la povera gente si era all’aperto, qui la narrazione è privata. La povertà si può incontrare, vederla, se si ha occhi per vedere. La ricchezza si nasconde”. E allora, come rappresentarla?
Soprattutto dato che, come già nella fortunata edizione dello scorso anno, l’obiettivo era muovere dal verismo del capolavoro del Bertolazzi, rappresentato per la prima volta al teatro Carcano nel 1893, per fare esperienza della città, dei luoghi. Per riportare in frammento scenico un “tavolo vivo di esperienze, non di concetti” sperimentati in 12 luoghi simbolici di ricchezza. Per accedere ai quali, tuttavia, manca un linguaggio comune. Tutto quel che si può fare, allora, è “credere a un teatro che fa il teatro” e passare per la via della metafora. Così hanno fatto gli otto drammaturghi – Faloppa, Donelli, Ferrari, Patacchini, Rossi, Scotti, Piccolo, Tollis, coordinati da Tindaro Granata – chiamati a offrire le parole a più di 160 attori in scena, che non sarebbero professionisti ma – qui è ancora più evidente dell’anno scorso – sono trattati come se lo fossero. Questa volta, non si rinuncia alla visione poetica. Se i sacerdoti non offrono a chi vuole raccontare la lingua del rito, significa che la ricchezza è intangibile. Non solo perché quando si crede di aver toccato un apice ci sarà sempre un mostro più grande nascosto, ma soprattutto perché è intangibile, per definizione, ogni forma di rappresentazione. Ma se la ricchezza del danaro è impalpabile, concretissima è invece quella umana che agli Sciuri ha dato forma: Il controcanto all’inafferrabile sono, si è detto, gli oltre 160 membri di una dozzina di laboratori che per tutto l’anno danno forma quel che avviene sul palco del carcano: anziani, disabili, adolescenti, professionisti, minori stranieri non accompagnati che in scena sbirciano dietro i vetri del Bosco Verticale “perché anche questa anima della città ha un volto”. Li coordinano, insieme ad ATIR, le compagnie Proxima Res, PEM ed Ecodifondo, . Detto in cifre? 21 formatori, 6 educat(t)ori e 70 professionisti di staff, compresi i tecnici.
Una squadra rodata da decenni di lavoro sul sociale, coordinata da Nadia Fulco, per dare vita a un’operazione culturale di cui Milano ha bisogno: tornare nei quartieri, coinvolgere la città e le reti urbane. Perché “non si può pensarsi operatori culturali, teatrali, se non si va tra la gente”. Quello di ATIR però, è un lavoro monumentale, che restitusce la dimensione sostanziale del lavoro sul sociale, “un contrasto alla notte che si è creata intorno al sociale” E tuttavia, un lavoro veramente innervato richiede tempo. E se l’oggetto del racconto è la ricchezza, ancora di più. Anche per questo, si moltiplicano le porte chiuse. Si aprono, anche se a fatica, le porte della Scala, della borsa, mentre alcuni luoghi “parlano” ma restano chiusi, come la scuola privata. L’albergo di lusso e il bosco verticale, invece, come altri, raccontano se stessi, con una visita guidata: la ricchezza è rappresentazione, si diceva, offerta come ostensione di una fascinazione solo nella misura in cui la ricchezza stessa lo ha scelto. E il resto? Si inventa, come: le piste dei jet, non a caso affidate ai preadolescenti, abituati a lavorare sulla fantasia. Ma rimangano tanti vuoti da riempire.
Per riempire il silenzio, all’invisibile serve una lingua metaforica e lirica, legata all’atemporalità e all’epica, Così Tindaro Granata affida a una Lella Costa inedita, in forma di voce che non potrebbe essere più corporea, una guida aulica e piena di mistero. A segnare la strada di un atto di ragionamento collettivo, anzichè la voglia di mostrare un mondo. Nessuna retorica di odio verso ricchi che del resto non si ammetterebbero mai ricchi abbastanza, ma piuttosto l’ammissione di una attrazione misteriosa rispetto a un mondo il cui desiderio abita tutti.
La ricchezza non ha confine e non conosce unità di misura, è fantasmatica come una brama, come il sogno ucciso da Macbeth, della cui strega ha preso le forme. Ma se non ha corpo non potrà mai essere decapitata.
Se Macbeth ha ucciso il sonno per sete di potere, e Macbeth era un dilettante, cosa si è disposti a fare per la sete di ricchezza? E così è Lella Costa a prestare un volto senza tempo alla parca. L’unico corpo possibile del denaro, del possesso, ha la forma di una maschera d’oro, perché la ricchezza non è altro che la sua rappresentazione: un gioco di simboli in cui, come in scena, anche il corpo si fa oggetto anche quando prende parola, sul nero che livella tutto una spolverata d’oro fa intuire, evoca attraverso la via che collettivamente, per istinto, associamo alla ricchezza. Ecco svelato il segreto dell’alchimia: come si crea il denaro dalla pietra dura? Immaginandolo. Cosa può diventare, allora, l’enorme idolo nero incombente attorno a cui tutto ruota, una grande palla nera, così l’ha immaginata Maria Spazzi, che sembra fare eco alla Ka’ba, ma è pronta a rovesciarsi senza pietà su chi la ricchezza non sia in grado di governarla. Un simbolo per l’inconsistenza, che si libera dall’implausibile di mettete in scena il ricco, verso cui la mancanza dell’incontro avrebbe tradito la verità del racconto. Intorno all’oggetto, come nelle persone in scena, si cementa l’unione di chi non ha un luogo comune. Ma a tenere insieme, in una costruzione sempre più ambiziosa è affascinante. L’arte, il linguaggio, visivo, scenografico, muovono in accordo perfetto un sistema complesso in cui ogni frammento funziona con rigore e naturalezza. E si rende evidente, in scena, la meraviglia, l’entusiasmo, la gratitudine della gente di appartenere a una comunità in una città che è anche questo. In cui certo la natura occulta della ricchezza è la notizia di Milano, ma ancora di più lo è, come ha dichiarato Sinigaglia trovando la sintesi del proprio compito, il modo che si è trovato per “occuparsi della qualità di esperienza di una popolazione, non di un punto di vista da esporre in coro. “Sarebbe una manipolazione artistica. Io qui devo raccontare un’emozione condivisa” perché, ha chiosato Lella Costa “La vita non basta viverla. Bisogna che qualcuno si prenda l’onore e l’onere di comporla in racconto”
Se non mi cogli, non mi puoi distruggere, suggerisce la ricchezza di una Milano sotterranea e molto meno capovolta di quanto ci piaccia pensare. Però la si può raccontare, riempirsele gli occhi per decine e decine di forme diverse, quelle che prende chi la città la abita. Per tornare a casa portando addosso l’ombra di una polvere d’oro, angosciosa e ammaliante, che si attacca a tutti e racconta molto di ognuno, soprattutto attraverso quel che si nega.
foto di copertina: Serena Serrani