Reinterpretata da Christoph von Dohnányi, la partitura onora la lettura che dell’opera aveva dato il grande regista francese scomparso. Di questa direzione si ricorderà il lirismo, il rubato struggente, la dolcezza celata nelle oscurità del cuore della protagonista
Alla Scala è appena andata in scena la migliore produzione della stagione: Elektra di Richard Strauss. Occasione non solo per riascoltare uno dei titoli di culto del novecento musicale, da venerare con Io, Es e Super-io per una volta d’accordo tra loro, ma anche per assistere all’ultimo sforzo di Patrice Chéreau, il grande regista francese scomparso nel 2013, da sempre legato a Milano, dal Piccolo alla Scala: Neruda, Dorst, Fosse per uno, Mozart, Wagner, Janacek per l’altra, una Lulu – manco a dirlo – per entrambi. Lo spettacolo è andato in scena per la prima volta a Aix-en-Provence nel 2013, l’anno dopo alla Scala, e da allora non si è più fermato: New York, Helsinki, Berlino, Barcellona, tutti hanno voluto vedere coi loro occhi il testamento del regista.
Quindi si tratta di una ripresa, come per il magnifico Fidelio di giugno firmato da Deborah Warner: annate un po’ fiacche quando le riprese sono meglio delle novità – ma la prossima stagione, almeno sulla carta, avrà regie più interessanti. Anche se non era affatto scontato replicare la qualità delle recita di allora: da sostituire il direttore, Esa-Pekka Salonen, e Evelyn Herlitzius, che alla Scala cantò la ferocia di una parte che da più di due millenni grida vendetta dalle pagine di Sofocle – la fonte di Hofmannsthal, ma quanto a Elettre Eschilo ed Euripide non sono stati da meno. Di quel cast è rimasta solo Waltraud Meier, una Klytämnestra dodecafonica, con meno voce di allora ma la stessa gelida eleganza.
Domenica sera a dirigere c’era Christoph von Dohnányi, e va detto subito che il direttore tedesco, da poco ottantanovenne, ha di questa partitura un’idea che la libera da tutti i cliché da salotto acculturato, secondo cui Elektra e Salome formerebbero un dittico sulle furie ossessive di due isteriche, per motivi familiari la prima, sessuali la seconda. Dittico “espressionista”, si intende, nel senso di una potenza fonica che impressiona ancora oggi, a più di cent’anni dalla loro comparsa a Dresda. Nulla di sbagliato in tutto ciò. Eppure, più che parteggiare per una discontinuità nella produzione di Strauss, che spossato da queste urla dell’inconscio si sarebbe poi rifugiato in un settecento rassicurante, Dohnányi legge fin da qui tutte le premesse del Rosenkavalier che verrà, contraendo le distanze tra Micene e Vienna; scriveva Bortolotto: «Con i suoi 103 strumenti, Elektra è anche una lezione di musica da camera». Certo all’Orchestra della Scala non manca il volume, né l’avvolgimento del suono o l’esplosione improvvisa che atterrisce, ma dell’Elektra di Dohnányi si ricorderà soprattutto il lirismo, il rubato struggente, il residuo di dolcezza scovata nell’oscurità più nera del cuore della protagonista – un momento su tutti, le espansioni al centro dell’aria dell’agnizione.
Così come è dolce, per quanto sembri paradossale, il canto incessante di Ricarda Merbeth, trionfatrice della serata, un’Elettra meravigliosamente “clochardizzata”, ancora più della Herlitzius, proprio come Chéreau aveva pensato: «Quella che vive in un angolo della corte con i cani», scriveva nelle note di regia. Un’eroina che sembra non avere più niente di sensuale, di ambiguo, di crudele, forse nemmeno di antico: è l’Atride dimenticata fuori dal palazzo, “senza tetto né legge” come nel film di Agnès Varda. D’altro canto nella Merbeth c’è qualcosa di sgraziato: nei suoi movimenti, nella sua danza di morte finale (anche se qui non muore) sa dare al personaggio una dimensione di inadeguatezza che funziona, perché aiuta il passaggio dell’opera attraverso i secoli, dalla solennità della tragedia al melodramma psicanalitico.
Ottimo anche il resto del cast: Regine Hangler (Chrysothemis), Roberto Saccà (Aegisth), l’Oreste di lusso di Michael Volle e le cinque ancelle che non saranno mai più trattate con tanta attenzione come in questo allestimento, che si apre con il loro silenzioso tentativo di pulire la scena metafisica di Richard Peduzzi, con scope e schizzi d’acqua: una regia che sembra essenziale, che sembra “poca” perché non corre forsennatamente verso il finale, ma preferisce giocare la parte di quel letto «su cui riposa l’anima» di cui parla Hofmannsthal.
Fotografie © Brescia/Amisano – Teatro alla Scala