Amore&social: Elena Stancanelli messa a nudo

In Interviste, Letteratura

Abbiamo incontrato Elena Stancanelli, autrice de “La femmina nuda”, e ci ha raccontato un po’ del suo libro, della candidatura allo Strega, dell’amore ai tempi dei social network e molto altro.

La fotografia in copertina è bellissima, e così anche la citazione impressa sulla quarta. Elena Stancanelli, con il suo caschetto biondo, appare in una piccola foto in bianco e nero sull’aletta destra. Quando ho acquistato il libro ho aperto una pagina a caso e ho sgranato gli occhi. Ho messo il segnalibro al romanzo che stavo leggendo – e alla sua ossessione per la purezza e per la grandiosità americana – e in poche ore ho divorato La femmina nuda, uscita N° 1 di narrativa della Nave di Teseo, candidato allo Strega, intelligente, magnetico e assolutamente chirurgico per chiunque abbia conosciuto il panico del “visualizzato alle”.

La femmina nuda parla dell’esatto contrario di ciò che solitamente consideriamo puro: parla dei corpi e di quanto siano imperfetti, infedeli, traditori eppure salvifici più di ogni altra cosa, forse proprio per questa loro capacità di lasciarsi contaminare e attraversare dal mondo. Parla di un corpo in particolare, quello di Anna, una carriera ben avviata e una relazione – stabile – con Davide.

«La relazione comincia quando i protagonisti hanno già 40 anni, non è un amore romantico e non nasce dal desiderio di costruire una famiglia. È un amore fra due adulti basato soprattutto sul corpo, sul desiderio, sull’affetto e sulla voglia di fare un pezzo di strada insieme. C’è un’intrinseca laicità nel rapporto» mi spiega l’autrice.

Ho 28 anni e per me è quasi impossibile ragionare in questi termini. Sono ancora prigioniera dell’assoluto, soprattutto in amore. Mi spiazza il fatto che Anna e Davide stiano insieme pur continuando a tradirsi, nel silenzio di una relazione che ha trovato il proprio equilibrio a partire dal compromesso. Nessuno scandalo né stridore di denti, solo una negoziazione con le inevitabili infedeltà del corpo, con la mutevolezza del piacere e del desiderio.

«Credo che le relazioni fra adulti siano inevitabilmente impure, e proprio per questo è fondamentale essere corretti. È vero che in alcuni casi la totale sincerità può essere controproducente, ma la slealtà fa precipitare tutto nello squallore: non si può agire senza tutelare l’altro e i suoi sentimenti, non ci si può imbarcare in vere e proprie storie parallele senza curarsi del fatto che tornare indietro sarà pressoché impossibile. Basta lasciare aperta una chat sul computer o dimenticarsi di cancellare la cronologia del browser per compromettere l’equilibrio. In una relazione, a diciott’anni come a cinquanta, servono cure costanti e rimangono dei confini che non possono essere attraversati».

È Davide a superare quei confini, innamorandosi di un’altra: Cane, che per tutto il libro sarà chiamata così perché, pretestuosamente, di lei sappiamo solo che ha un cane che si chiama Cane. Un nome che serve alla protagonista per sfogare almeno un briciolo di tutta la rabbia e il risentimento che nutre verso di lei. Una volta scoperto il tradimento, Anna si trasforma in una perfetta idiota: scorre per ore le foto di Cane su Facebook, spia le chat di Davide, comincia a pedinarlo grazie alla app “Trova il mio Iphone”. In una coazione a ripetere ossessiva e dolorosissima, Anna passa le giornate a immaginare il corpo del compagno unito a quello dell’amante, rapito in amplessi pieni e travolgenti che con lei, ne è sicura, non ha mai conosciuto. Per un anno intero Anna precipita nel regno dell’idiozia, prova imbarazzo per se stessa e per la sua debolezza, si lascia andare fino a non riuscire più neppure a prendersi cura di sé: non mangia, beve, fuma mille sigarette al giorno, indossa tutti i giorni gli stessi benedetti jeans.

La vicenda oscilla fra due poli: da un lato c’è il corpo, veritiero, brutale, onesto, che si fa e disfa nel contatto con il mondo, origine di ogni piacere e di ogni dolore. Dall’altra, il virtuale che torna e ritorna su se stesso, che filtra il reale a uso delle ossessioni che accende e alimenta. Gli amori degli ultimi dieci anni hanno dovuto fare i conti con spunte blu che dilatano i tempi di attesa, con fotografie di estranei che conosciamo a memoria, con commenti che fatichiamo a decifrare e che, solitamente, decifriamo nel peggiore dei modi possibili. Una spirale di ansia e di ossessione per il controllo che l’autrice ha tratteggiato con precisione e lucidità:

«Una delle cose più importanti di questa storia è il tempo in cui nasce. Immaginare una storia simile in un altro tempo è un ossimoro: le cose vanno così, e non potrebbero andare diversamente, proprio perché la vicenda è ambientata nel presente. Se l’avessi ambientata vent’anni fa, quando non c’era la rete e la differenza fra pubblico e privato era ancora ben chiara, la storia sarebbe andata molto diversamente. Ma con i social abbiamo perso di vista questa distinzione, il terreno è diventato molto più scivoloso e ci siamo ritrovati tutti più vulnerabili. Se non riconosci il confine dell’altro non hai nessuna ragione per non invaderlo, e un cellulare appoggiato sul tavolo è sempre una tentazione enorme. La facilità con cui abbiamo accesso alle vite degli altri ha affievolito la nostra etica, l’ha resa più lasca e manipolabile».

stancanelli

Elena Stancanelli ha raccontato gli effetti psicologici dei social network senza indulgenza né moralismo. Non teme di apparire obsoleta o conservatrice, in un mondo dove “if you don’t share it, it doesn’t exist”. Prima di fare l’intervista l’ho cercata su Facebook ma senza risultati. Le chiedo se per caso ha il profilo chiuso:

«No, non ci sono proprio su Facebook. Non mi piace l’esposizione del privato in maniera così indiscriminata, è rischioso perché non sai mai dove andrà a finire. È come staccare un pezzo di te e darlo in mano a sconosciuti. Non sai per quanto tempo rimarrà in giro, a chi arriverà e con quali implicazioni. Lo trovo pericolosissimo, oltre al fatto che non mi diverte».

Come ogni strumento di comunicazione, Facebook è anche un dispositivo che plasma il soggetto che lo utilizza e lo definisce secondo i propri meccanismi:

«Credo che sia normativo: è un meccanismo pubblicitario che rintraccia diverse categorie di persone per proporre loro dei contenuti. Se appartieni a una certa categoria sarai pressoché identico, nei gusti e nelle abitudini, a tutti gli altri membri di quella categoria. È come un giardino coi sentieri che si biforcano, ma dev’essere chiaro che si tratta solo di un simulacro, di un dispositivo. La vita è molto più complicata e deve conservare tutte le possibilità più sfumate. Quello che mi spaventa è che i due piani si confondano, ed è esattamente quello che succede ad Anna quando comincia a pensare che tutto quello che legge su Facebook sia la vita vera: va in cortocircuito e non distingue più il reale dal virtuale».

L’idiozia trasforma Anna in una monade: vede solo i fantasmi della sua immaginazione ed è incurante del mondo, che con la sua carnalità è stato escluso dall’orizzonte e rimosso. Anna si dimentica del proprio corpo, dei suoi piaceri e della sua femminilità. Soprattutto, smette di mangiare. E se l’anoressia di solito è considerata una forma di iper-controllo funzionale al superamento dei momenti critici, nel caso di Anna è più simile a una regressione all’infanzia: Anna, come una bambina, non è più in grado di badare a se stessa. Come se, in fondo, delegassimo sempre all’altro la nostra cura e il senso di responsabilità verso noi stessi dipendesse molto di più dalla sopravvivenza della coppia che dal nostro proponimento. Il meccanismo affiora quando l’altro non c’è più, e quello che rimane si ritrova, come un bambino al primo giorno d’asilo, incapace di cavarsela da solo.

«Anna sviluppa una sorta di attaccamento e di bisogno di accudimento nei confronti di Valentina, la sua migliore amica. Valentina la porta a mangiare, la tiene per mano e al ristorante ordina per due, proprio come se fosse una bambina. Quando è da sola Anna si nutre solo di cracker e succhi di frutta, che in effetti è la merenda classica dei bambini. Quando due persone si separano viene a mancare un appoggio che è anche assistenza, tutela, e tutti, sia uomini che donne, ci ritroviamo rigettati indietro in una dimensione infantile e paralizzante».

Abbandonata, depressa e alienata, Anna le prova tutte per tenersi stretto Davide. Ha bisogno di lui per continuare a reggersi in piedi. Serve allora un altro bersaglio da detestare, un mostro-schermo su cui proiettare odio e frustrazione. Il mostro è ovviamente l’altra, Cane; nelle fantasie di Anna, una vera e propria divinità del sesso. Non diversamente da Frankenstein di Mary Shelley, Anna crea un mostro (virtuale) che sfugge al suo controllo:

«Sicuramente i social e la rete sono un vero e proprio spazio psichico dentro al quale si manifestano e crescono le ossessioni, attraverso un continuo racconto del mondo. Ma quando Cane si trasforma in una persona vera, con un corpo reale, perde tutta la sua forza e non è più così imbattibile. I social funzionano benissimo come filtro magico perché eliminano la vergogna del corpo: spariscono la componente animale, la goffaggine, l’intreccio di umori, sapori, odori che fa di noi quello che siamo. Sui social rimane soltanto un’idea di sé, totalmente astratta, che modelliamo tanto per gli altri quanto per noi stessi; come se dipingessimo un ritratto su uno specchio e poi fingessimo che si tratta della nostra immagine riflessa. Creiamo degli strani Alien che buttiamo in uno spazio sconosciuto e lasciamo che agiscano da soli, ma sempre per conto nostro. Da una parte sono sicuramente più forti, più belli e più luccicanti, dall’altra sono fragilissimi e revocabili in qualsiasi istante».

Niente funziona meglio di un incontro vis à vis per uccidere un mostro virtuale, e Anna si prepara all’incontro con Cane con la stessa ritualità e la stessa cura con cui ci si preparava a una singolar tenzone. All’improvviso, la protagonista ritrova la propria femminilità e comincia, poco a poco, a riprendere possesso di sé, ma pare che lo faccia solo per mostrarsi bella agli occhi della rivale. Quindi cos’è la femminilità? Da una parte abbiamo le pubblicità della Dove che ci dicono che dobbiamo “coccolarci”. Dall’altra, quasi tutto il resto del mondo ci dice che dobbiamo essere belle e femminili per sedurre gli uomini. Qui sembra che la femminilità serva per rivaleggiare fra donne alfa:

«La storia di Anna ci dice che la femminilità non è poi così importante nella seduzione, infatti gli uomini non si accorgono neanche della sua trascuratezza, anzi. D’altra parte la femminilità non riguarda neppure il rapporto che lei intrattiene con se stessa. Forse allora la femminilità appartiene allo stesso ambito semantico del potere, si tratta di un puro e semplice esercizio di dominio. Può essere uno strumento per combattere una gara all’interno del mondo: il genere si eleva a re di un corpo, a suo tratto primario e fondamentale, e si impone sull’ambiente in cui si muove. La femminilità rappresenta quindi un modo per sentirsi di nuovo a posto con se stesse, per ritrovare il proprio fuoco senza essere in balìa del desiderio altrui».

Quando Anna incontra Cane – il corpo di Cane, il suo viso, la sua frangetta nera, le sue braccia magre, il suo seno piccolo, quella goccia di sudore che scende giù per la nuca e le appiccica i capelli – il fantasma virtuale sparisce per lasciare posto a una donna in carne e ossa, a un’altra femmina nuda «completamente priva di ogni brillantezza intellettuale. Un grado zero dell’intelligenza, anche nel corpo». Per uccidere il mostro Anna ha bisogno di banalizzare la nemica, ma se si fosse trovata di fronte un’altra donna, una donna più simile a lei, una donna intelligente, come avrebbe fatto a liberarsi della sua ossessione?

 «La verità è che noi lettori non sappiamo nulla di Cane, conosciamo solo la percezione che ci restituisce Anna. Per uscire dall’idiozia Anna ha trasformato Cane in una donna che lei può tranquillamente sconfiggere grazie alla sua superiorità intellettuale. Non so cosa sarebbe accaduto se si fosse trovata davanti una donna diversa, perché in realtà non ho idea di che tipo di donna sia Cane».

Il romanzo è una lunga lettera-confessione a Valentina, l’amica che per tutto l’anno dell’idiozia si è pazientemente presa cura di Anna, ma ha sempre ignorato – o finto di ignorare – che cosa stesse realmente facendo. Idiota significa proprio “chi sta lontano dalla vita pubblica, dalla società, chi non si impegna nel confronto con gli altri”. Anna si lascia alle spalle l’idiozia con una lettera, con il confronto aperto e schietto con un’amica, con l’altro. C’è bisogno di mettersi a nudo, di essere nude, per non raccontarsele e non prendersi in giro, per non crogiolarsi nella narrazione drammatica di quello che si sta vivendo.

«Ad un certo punto del libro Anna lo dice apertamente: “Se ti avessi detto ad alta voce che cosa stavo facendo, in qualche modo avrei disattivato il meccanismo che mi spingeva a farlo”. Nella vicenda di Anna molte cose sono romanzo, racconto e narrazione di quello che accade. A un certo punto la realtà e il mondo vengono esclusi e tutto quello che succede si trasforma in letteratura di sé, dell’altro, del dolore e drammatizzazione del reale. Un meccanismo del genere si disattiva a contatto con gli altri: il confronto e la confessione ridefiniscono la misura delle cose e le giuste prospettive».

La conclusione è limpida e liberatoria. Anche la scrittura si apre, si distende, abbandona i nervosismi, le ansietà e le ossessioni compulsive dell’idiozia. Quei pensieri che non si possono controllare e che vanno dove vogliono vengono superati da una consapevolezza gioiosa e serena del corpo: «Il sesso: ecco tutto l’incanto necessario», recita l’epigrafe di Philip Roth. Dopo aver sezionato e osservato al microscopio tutte le debolezze e le cretinerie a cui può abbandonarsi una donna che perde un amore, Elena Stancanelli trova nel corpo la via di fuga e il ritorno a sé. Le chiedo quale libro consiglierebbe a una donna che si è persa, e la risposta non mi stupisce poi tanto:

«I romanzi di Elena Ferrante. Sono davvero bellissimi ed è una gioia leggerli; raccontano un rapporto tra due donne, entrambe intelligentissime ma molto diverse, e lo contestualizzano dentro a esistenze complesse che attraversano cinquant’anni di storia. Quando una donna entra in un meccanismo ossessivo comincia a cullarsi nella stupidità, che è molto comoda e costa poca fatica. Ma l’intelligenza è l’antidoto migliore a ogni deriva ossessiva, e nei romanzi della Ferrante le risorse femminili non si esauriscono mai: le protagoniste trovano sempre, da qualche parte, la forza, a volte l’astuzia, per superare le difficoltà e rimettersi in carreggiata».

E se parliamo di intelligenza femminile, qui parliamo di un romanzo candidato al Premio Strega:

«È una cosa davvero bella perché si tratta dello Strega e noi siamo una piccola casa editrice. Perché sono una donna e spesso si è detto che le donne non hanno ruoli significativi dentro allo Strega. E poi perché in questo momento c’è un grosso rivolgimento all’interno dei gruppi editoriali, e ogni volta che ci sono dei sommovimenti si crea lo spazio affinché emergano delle cose buone. Prima erano tutti giganti, ora la situazione è più movimentata e potrebbe esserci qualche possibilità in più per le realtà piccole. Alla Nave di Teseo c’è una donna appassionatissima che si carica sulle spalle un’avventura e la porta avanti con trasporto infinito, e che abbia deciso di andare allo Strega con il mio libro è una sfida alla Davide e Golia che mi emoziona e mi diverte tanto».

 

Immagine di copertina by jst.fd

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