Cittadina americana dal 2007, democratica e profondamente italiana: ha votato Sanders alle primarie ma sa che alla fine, tra discussioni accanite con gli amici e mentre si aggira un fantasma chiamato Trump, sceglierà Hillary
Vivo negli Stati Uniti dai primi anni novanta: ho scampato l’amministrazione Reagan per poco, ma mi sono beccata ben due Bush, sia il padre che il figlio. Poi, fortunatamente è arrivato anche Obama, che a questo punto non può che essere uno strano Spirito Santo.
Per anni mi sono rifiutata di diventare cittadina americana, un po’ per principio e un po’ per ripicca nei confronti di questo Paese tanto lontano dal mio. Poi nel 2007 ho ceduto, per poter stare nelle file più corte dell’immigrazione in aeroporto, ma soprattutto per votare. L’esame per diventare cittadina americana non è molto difficile: bisogna studiare un libricino in cui si racconta di come gli americani (quelli di origine europea, non quelli veri) sono delle brave persone, e che la democrazia e il rispetto per gli altri prima di tutto. Si deve anche studiare un po’ della storia: che c’è stata una guerra d’Indipendenza e una guerra civile, che i padri fondatori scrissero la Costituzione, e che ancora adesso è invidiata da tutto il mondo. Cose così, insomma.
Si va a fare l’esame in un ufficio ben tenuto e pieno di bandiere e di gente, tutti ancora stranieri, vestita a modo per l’occasione. Venni chiamata da una signorina annoiata e truccata maluccio, che mi chiese la capitale dello stato di New York e di fare lo spelling della parola APPLE. Passai a pieni voti, e, senza congratularsi con me, mi disse di andare ad aspettare di là. La seconda sala d’attesa era un po’ meno bella: le sedie erano messe a mo’ di stazione dei pulman, e chi aspettava era già stufo di stare ancora ad aspettare. Venni chiamata da un signore in giacca e cravatta che mi chiese di seguirlo nel suo ufficio. Mi fece solo una domanda: «In caso di conflitto, starà dalla parte degli Stati Uniti?» Io ci pensai e risposi timidamente che dipendeva, ma lui mi interuppe quasi subito: «Deve rispondere di sì, così metto il timbro e chiamo quello dopo di Lei, che oggi siete in tantissimi». Ubbidii senza indugi. Qualche settimana dopo venni invitata con altre duemila ex-stranieri e neo-americani a fare il giuramento allo stadio di baseball di Boston. Ci chiesero di alzarci, sventolare la bandierina che ci avevano dato all’entrata e cantare l’inno nazionale (avevano messo le parole su un grande schermo), ma io stavo dando la merenda a mia figlia piccola per cui non mi alzai e non cantai. In compenso, mi vergognai molto.
Da quel giorno, però, posso votare, e da quel giorno seguo molto più attentamente i dibattiti tra i vari candidati, leggo molto più attentamente gli articoli sul New York Times, e faccio molte più domande a mio marito Dan sui mille dettagli che non capisco. E da quel giorno ho votato ben due volte per Obama. Sembravano, quelle due elezioni, davvero rivoluzionarie: un candidato alla Casa Bianca come non si era mai visto, con la sua pelle scura e i suoi ‘Yes We Can’ urlati dappertutto che avevano risvegliato da un lungo letargo una parte del popolo americano, quella nera, che spesso si astiene dal voto, facendolo trionfare. Nessuno, allora, si sarebbe immaginato che le elezioni di quest’anno sarebbero state molto più controverse di allora: da qualche mese ormai, alla radio, nei bar, fuori dalla scuola quando si aspetta che suoni la campanella e alle fermate degli autobus non si parla d’altro. Stiamo assistendo a una vera e propria rivoluzione contro la vecchia politica: da una parte abbiamo un socialista ebreo di Brooklyn che denuncia un gap economico fra ricchi e poveri talmente ampio da far venire i brividi, e che vuole che le università e l’assistenza medica siano gratuite per tutti; dall’altra Donald Trump, un imprenditore miliardario e populista ignorante e presuntuoso, che parla di costruire muri per non fare entrare gli immigrati e di torturare i terroristi. Nel mezzo, una donna, ex First Lady, progressista ma antipatica a tutti, e un integralista cristiano che vuole che la polizia faccia i raid nei quartieri musulmani del Paese.
Entrambi i partiti, al loro interno, sono divisi: molti democratici, tra cui moltissimi miei amici, insistono nel dire che se Bernie Sanders non ottiene la nomination, preferiscono non votare. «Non la vogliamo una presidentessa guerrafondaia e della vecchia guardia come la Clinton», dicono, aggiungendo, «Non perché è una donna…», facendomi nascere il dubbio che forse il fatto che è donna abbia invece un certo peso. «È vero», rispondo cercando di spiegare il mio punto di vista, «Hillary ha votato per andare in guerra con l’Iraq, ma è anche vero che lo ha fatto perché Bush aveva convinto tutti che Saddam Hussein avesse le famose armi di distruzione di massa, cosa poi non vera». «E poi è antipatica!», dice il mio amico Richard. Ha ragione, non è particolarmente simpatica, ma un presidente non deve essere ‘simpatico’, deve essere competente, non troppo a destra e non troppo a sinistra, per poter davvero cambiare le cose a Washington. «E poi», aggiungo finendo la bottiglia di rosso, «anche se ha le mani in pasta con quelli di Wall Street, non si può negare il fatto che sia profondamente progressista per quanto riguarda minoranze, donne, disabilità, scuola, sanità e chi più ne ha più ne metta. E ha le alleanze giuste». Insomma, le discussioni vanno avanti per ore, e alla fine, a dire il vero, sono sempre le stesse.
Eppure, e i miei amici lo sanno, ho votato anche io Bernie alle primarie, sentendomi leggermente in colpa perché, dopo tanti anni di militanza femminista, per una volta che avevo la possibilità di votare per un candidato donna alla presidenza americana, ho scelto di non farlo. So, però, che prima o poi la crocetta andrà a lei: Sanders, per quanto abbia ragione su tutto, non riuscirà mai ad ottenere i numeri che gli servono per entrare nell’ufficio ovale. Lo sappiamo tutti, anche se qualcuno non vuole ammetterlo. E se per caso succedesse un miracolo, ho paura che il Congresso non gli farebbe passare neanche la richiesta di andare in bagno a metà riunione, e che non si andrebbe avanti di un millimetro.
In ogni caso, le nostre discussioni politiche fatte attorno ai piatti ancora da mettere in lavastoviglie finiscono sempre con qualcuno che dice: «Comunque, con tutto il casino che sta succedendo tra i repubblicani, in fondo ci sta andando benone» e così andiamo a letto tutti belli contenti.
Immagine di copertina di Matthew Rogers