Accade sul palco della Scala nell’opera di Antonín Dvořák messa in scena da Emma Dante e diretta con adesione morava da Tomáš Hanus. Una fiaba dolce e toccante, pervasa di simbologie magiche profonde. Un’opera che più femminile e bagnata non si può immaginare
Un tuffo dove l’acqua è più blu. Dove? Alla Scala, sei sere da ieri al 22. Per il suo ritorno “romantico” (parole sue), quattordici anni dopo una Carmen di Bizet che pochi ebbero voglia di capire nella sua mediterranea femminilità, Emma Dante si riaffaccia nella sala del Piermarini immergendo in un piccolo lago, vero, liquido, il suo spettacolo su un’opera che più femminile e bagnata è difficile immaginarla.
Rusalka di Antonín Dvořák (non chiamatelo Anton, vi prenderebbe a schiaffi: “sono céco, non tedesco”) è un’opera bellissima su una fiaba tenera e toccante, pervasa di noir e simbologie profonde. Un’opera rara, scritta nel 1900 raccogliendo tutte le eredità dell’Ottocento, sconosciuta se non si frequentano quei reperti chiamati dischi: alla Scala non si è mai data, circostanza che condivide con molte altre che sicuramente valgono di meno.
La Rusalka di cui scrive Dvořák – quello della Sinfonia dal Nuovo Mondo, perché fu americano prima di tanti americani, diresse il conservatorio di New York e insegnò agli yankee di dar retta alla musica dei neri – è una ninfa delle acque che vuole lasciare il mondo degli abissi, diventare donna, avere un’anima, immergersi in un corpo, scoprire l’amore. Vodník, lo spirito delle acque, l’avverte: lasciare il mondo in cui sei nata ti porterà male. Gli umani sono gente malvagia – come dargli torto –, specializzata in tradimenti. E se l’uomo di cui sei innamorata ti tradirà, non potrai tornare indietro se non maledetta per sempre. Diventare umana è una sventura, attenta. Ma se è questo che vuoi, l’unica che può aiutarti è la strega Ježibaba (soprano “nero”). Rusalka vuole, fortissimamente vuole diventare donna, anche se il prezzo imposto dal sortilegio è altissimo: rinunciare alla voce. Per Rusalka, meglio muta che nemmeno assaggiare il mondo per lei misterioso delle emozioni. Non sa che cosa l’aspetta. Lo sappiamo noi. Il Principe (tenore romantico), rimasto folgorato dalla sua bellezza sincera e disarmata, presto inciampa nelle avances di una Principessa (soprano erotico e maligno), donna vera che ha buon gioco nel farsi preferire a un essere che viene dal mistero, capace solo di un amore “freddo”, come l’acqua.
Così, nell’atto secondo della festa di nozze, che dovrebbe celebrare la felicità, si consuma la disgrazia. Assaggiato il tradimento, Rusalka è destinata a non conoscere l’amore dell’uomo che ama e non poter tornare al suo mondo se non come reietta dai suoi simili. “Non sono donna. Non sono ninfa – piange –. Non posso morire. Non posso vivere”. Un rimedio c’è: versare il sangue di un essere umano. Uccidi il tuo principe, comanda Ježibaba. Ma Rusalka non sa tradire (lei no): che almeno lui sia felice. A sorprenderci sarà proprio il Principe – un altro uomo da due soldi, se non fosse per il finale – che si riscatta chiedendo il bacio della morte e scegliendo lui, umano, di entrare in quel regno sospeso fra carne e spirito in cui l’opera di Dvořák sul libretto di Jaroslav Kvapil (ispirato a La sirenetta di Andersen e Undine di de la Motte Fouqué), decide che i due amanti si elevino.
«Non è possibile mettere in scena un’opera come Rusalka – dice Emma Dante – senza l’acqua vera, presente, tangibile, senza sentirla suonare insieme alla musica di Dvořák». E mantiene la promessa. Un piccolo lago al centro della scena (acqua fino al ginocchio), si increspa, si riflette sullo sfondo, evoca immagini, vincola i movimenti, chiama immersioni, fa sentire la sua presenza lungo tutti i tre atti. (Attenzione: l’acqua la vedi bene dai palchi, in platea la percepisci). Attori, cantanti e mimi ci giocano (il direttore Tomáš Hanus, ai saluti finali, c’inciampa dentro). Le ninfe compagne di Rusalka, vestite di rosso (i costumi di Vanessa Sannino marciano su colori forti e suggestioni folk), cantano in immersione, danzano come nuotatrici acrobatiche (complimenti a Hila Fahima, Juliana Grigoryan e Valentina Plushnikova). Gli ospiti del pranzo nuziale, forse fuggiti dal Mago di Oz, si muovono come pupazzi, siedono anche loro attorno a un tavolo immerso nell’acqua e gustano per pranzo i tentacoli di cui Rusalka, un po’ medusa e un po’ polipo, si è liberata con l’incantesimo. Non sirena, per carità. Niente pinna.
Nella scena fissa del primo e del terzo atto, Carmine Maringola cita le rovine gotiche di una Tintern Abbey; in apertura dell’atto secondo chiama il magico della Natura facendo scendere un muro di fronde in cui si confondono elfi fatti di foglie. Lo spettacolo non abbandona mai la cifra figurativa e descrittiva. Il gesto ha sempre la fisica evidenza che Emma Dante vive nel suo teatro. Rusalka (che ha lo squillo e l’encomiabile resistenza di Olga Bezsmertna, molto brava e molto applaudita con la bandiera ucraina attorno alle spalle) non riesce mai a liberarsi della fatica di muoversi nel suo corpo di donna. Dmitry Korchak (solido, quasi un heldentenor), fa bene quel che ti aspetti da un Principe: cantare sempre su corda tesa, atteggiarsi un po’ stentoreo e impettito anche se non stanno per incoronarti re. Okka von der Damerau, da poco ascoltata anche nell’Ottava di Mahler diretta da Chailly, s’impone con presenza indiscutibile nei fieri panni di Ježibaba. Lo Spirito delle acque ha il timbro profondo di Jongmin Park, lo Sguattero ha la voce di lusso di Svetlina Stoyanova. A nessuno del cast, anche nelle parti piccole – il Guardiacaccia di Jiří Rainiš, il Cacciatore di Ilya Silchukou –, manca il tratto tagliente della parola céca.
Di terra e di cultura morava, Tomáš Hanus dirige il “suo” Dvorak ben deciso a far emergere la potenza espressiva di un’opera scritta all’inizio del Novecento facendo decantare tutto il patrimonio linguistico tardoromantico. Ruggiscono corni e basso tuba, pulsano le percussioni, scattano i moduli della musica popolare che Dvořák conosceva benissimo, ma che quasi sempre “inventava” di sua mano senza prestiti (come nelle Danze slave, uno dei successi commerciali più clamorosi dell’Ottocento, replica dell’exploit delle Rapsodie ungheresi di Brahms). Ma Hanus sa trattare con dolcezza i ripiegamenti di un’opera che nel coté più intimo esibisce pezzi meravigliosi come l’aria alla luna di Rusalka, degna di Čaikovskij.
Curiosa coincidenza: alla Scala, il precedente dello spettacolo acquatico più bello è di Robert Carsen (2006): per Kát’a Kabanová di Léoš Janácek, genio della Moravia come Dvořák. Siamo circondati dal mare, siamo un paese di naviganti, ma la magia dell’acqua sono i nordici e gli slavi a sentirla più forte.
Foto: Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala