Rivive in teatro su testo di Matteo Luoni la storia del maestro di Hollywood autore di un gesto che ne ha marchiato il nome agli occhi della societa civile statunitense
Muore giovane chi è caro agli dèi, diceva Menandro. Dal che si deduce che gli dèi infieriscono contro coloro che odiano facendoli morire in età più che tarda. Elia Kazan. Confessione americana racconta la benedizione/maledizione del longevo regista di origine turca (1909-2003), la cui vita si è protratta per oltre mezzo secolo dopo il gesto che ha marchiato il suo cognome agli occhi di tutta Hollywood, nonché della società civile statunitense: denunciare come comunisti alcuni amici storici, primo tra tutti il drammaturgo Clifford Odets, di fronte alla famigerata Commissione per le attività antiamericane, nel 1952, all’apice dell’epidemia del Maccartismo.
Il testo di Matteo Luoni – finalista al Premio Hystrio 2021, che il 5 novembre ha debuttato presso il Teatro Fontana di Milano dopo il passaggio alla Biennale Teatro 2020 – elenca tutte le attenuanti di Kazan, ma senza assolverlo mai del tutto. È vero, non è stato il regista di Un tram che si chiama desiderio e di Fronte del porto a decidere di sacrificare fior di colleghi in nome del proprio tornaconto: è stata la 20th Century Fox a pressarlo. Né tantomeno è stato lui a chiedere di sopravvivere ai suoi amici più intimi, a due mogli, a Marilyn, a JFK e alle Torri Gemelle. Cosa avrebbe dovuto fare, del resto? Chiudersi nel silenzio in segno di rispetto alle carriere che, suo malgrado, aveva contribuito a stroncare?
Kazan ha seguito l’unica strada possibile: onorare il proprio talento lavorando. Producendo, come il Sogno Americano esige. La drammaturgia di Luoni, però, si muove nelle crepe del dubbio… perché Kazan, pur di continuare a fare ciò che era predestinato a fare, non ha mai scelto niente fino in fondo, approfittando dei comodi (?) alibi che – prima, dopo e durante la deposizione di fronte alla Commissione – gli sono stati offerti da quanti lo circondavano: amanti che, motu proprio, hanno deciso di abortire i figli non programmati; amici come Odets che, assolvendolo preliminarmente, gli hanno detto che anche loro si sarebbero comportati esattamente come lui, denunciandolo senza esitare.
Confessione americana affronta temi noti ma non usurati: gli incubi che alimentano la Fabbrica dei Sogni; la disperazione dietro all’euforia; il desiderio di fermarsi a riflettere contrapposto alla necessità di agire, andando sempre avanti; il tutto all’ombra del mostro insaziabile che si chiama, appunto, Sogno Americano. Tutto ciò viene rimpastato energicamente nella drammaturgia – didascalica sì, ma non pedante – con un’alternanza incalzante di umori e di toni, un’ironia autocritica e una sveltezza che fa pensare a un film di Howard Hawks (più che dello stesso Kazan) visto con l’audio commentary.
Un bombardamento di parole, quindi, che però arrivano quasi tutte a segno, grazie alla destrezza della regia di Pablo Solari e alla ricettività degli attori. Oltre all’emotivo Kazan di Woody Neri, colpiscono per bravura Valeria Perdonò (la moglie Molly) e Luca Mammoli (soprattutto nelle parti di un esauritissimo Tennessee Williams e di un Lee Strasberg dalla lingua acuminata).
Un altro punto di forza è l’attualità del tema – più forte che mai, dato l’aspro dibattito in corso sulla cancel culture – che ombreggia tutta la Confessione americana di Luoni: la colpa di un uomo, ben circoscritta nello spazio e nel tempo, può oscurare tutto ciò che ha fatto prima e dopo?
Nel caso di Kazan, i “no” e i “sì” sono stati equamente – e plasticamente – suddivisi tra coloro che, nel 1999, durante l’assegnazione dell’Oscar alla carriera, si sono alzati per applaudirlo, e quelli che sono rimasti seduti a braccia conserte, per rinfacciargli un peccato risalente a quando alcuni di loro non erano neppure nati.