Dopo la morte, si è discusso sull’identità di Elio Fiorucci. Un uomo lasciato spesso solo (anche ai funerali) perché non categorizzato: artista? stilista? pubblicitario?
Difficile dire se Elio Fiorucci fosse un artista oppure no. Prima ancora si potrebbe discutere se la moda sia un’arte come tutte le altre – cosa, in sé, già molto problematica. Quello che da tempo gli ambienti più d’avanguardia della critica internazionale (che corrispondono anche ai più danarosi e di successo, però) cerca di dirci è che: sì, la moda è entrata nel Gotha delle arti, aiutando al superamento delle inveterate e insopportabili differenziazioni tra arti maggiori e arti minori. Quando a conclusione della visita del Rijksmusem di Amsterdam si trova un vestito Mondrian di Yves Saint-Laurent, quando il Victoria and Albert di Londra dedica un’immensa mostra ad Alexander McQueen o quando il Courtauld Institute concede una laurea honoris causa a Victoria Steele, il messaggio è uno solo: la moda è un’arte. E come tale va trattata e studiata.
Nel caso di Elio Fiorucci il problema, però, si fa complicato. Esponente di spicco del jet set, dell’arte e della cultura pop internazionale, il problema è anche che c’è chi non è mai riuscito a fare nemmeno i conti con l’idea che quella di Andy Warhol e compagni sia arte. E, più all’indietro, che quella di Duchamp fosse arte. Si osserva, tuttavia, uno strano fenomeno: se su 100 intervistati, 80 sono disposti a dire che Fiorucci non faceva arte, 40 lo dicono per Warhol e probabilmente 4 per Duchamp. Sarà forse che il tempo persuade alla benignità o che, alla lunga, si impongono gerarchie di gusto che in pochi hanno il coraggio di contestare? Pare, però, che le argomentazioni di chi si oppone siano tanto vane da fare venire il sospetto che nascondano solo il gusto di opporsi al mainstream che ha ormai riassorbito ciò che un tempo era outsider. Una sorta di masturbazione intellettuale di chi – come l’epico Nanni di Ecce Bombo – non fa altro che chiedersi quale sia il modo di farsi notare di più.
Ma la Pop Art è davvero arte? Con il dire che tutto può diventare arte, Warhol rompeva l’unico limite invalicato da Duchamp, che trasformava in are solo a ciò che era visivamente indifferente: le maglie della definizione di arte si allargavano al punto che la questione non diventava più la sterile opposizione accademica tra arte e non-arte sulla base di definizioni dell’Arte che non erano altro che un colabrodo. La questione diventava se quella che ci si trovava di fronte fosse buona arte oppure no, e cioè se fosse in grado di rappresentare ansie, frustrazioni, gioie, idee e possibilità di uno specifico momento nella storia della condizione umana. Come in una cura omeopatica, sottoponendo una dose shock, quasi intossicante, all’organismo storico-artistico, Warhol ne ridiscuteva le fondamenta, immettendo nuova linfa nel sistema – più di chiunque altro. Purtroppo non è stato capito, e invece che ricominciare daccapo con nuova linfa, la seconda metà del Novecento – a parte felici eccezioni – si è trasformata in un’accademia del Pop e dell’Avanguardia: mai cosa fu più triste.
Comunque, per tornare a Fiorucci: che sia stato un grande interprete della sua epoca non c’è dubbio. Che fosse anche una creatura ibrida (come lo stesso Andy) un po’ al limite tra tutte le diverse categorie, neppure. Forse più che sforzarci di attaccargli un’etichetta – era un artista? uno stilista? un uomo di marketing? un comunicatore? – potremmo iniziare a pensare al contrario, a come lui (e altri con lui) abbiano messo in crisi proprio questo, proprio la rigida categorizzazione delle sfere sociali di matrice ottocentesco-borghese. Il fatto che, purtroppo, queste categorie funzionino ancora è testimoniato dal fatto che al funerale di Fiorucci ci siano andati in pochi: al di là della gente comune, poche persone “di categoria” si sono sentite in obbligo di andare. Tante volte ai funerali ci si va per spirito di categoria: muore un cantante, e giù i cantanti al funerale; muore un giornalista, e si mobilita tutta la carta stampata. Muore uno spirito libero, e tutti mandano corone di fiori. Se è famoso. Altrimenti rimane sempre il solito cane.
Lavorando altrettanto al limite tra arte, moda, design, pubblicità, spettacolo, musica e cultura aveva intuito che anche queste erano categorie che, nel mondo postmoderno, sarebbero saltate. Lagnarsi che sarebbe stato meglio che non fosse così sarebbe come assumere la posizione di chi, di fronte al verso libero di Leopardi invocava ancora l’esametro virgiliano, di chi pensa che si possa ragionare delle forme artistiche in chiave di progresso o regresso, piuttosto che di testimonianza. Di chi pensa che, in ultima analisi, piuttosto che capire un fenomeno sia importante giudicarlo.
E allora andiamo a vedere che Fiorucci aveva dato potere alla fantasia (che non significa “fantasia al potere”): aveva inaugurato nel ’67 il suo store in Galleria Passarella (dietro piazza San Babila) con Adriano Celentano che vi si presentò in una Cadillac rosa. Era prima del 1968, erano gli anni in cui Yves Saint-Laurent inventava il prêt-à-porter e in cui la contestazione si sentiva solo nell’aria, ma non era ancora una realtà. Lui la gridava senza caricarla di simboli politici, per ciò per cui, insomma, sarebbe poi rimasta: uno spostamento di luoghi e funzioni, uno stravolgimento delle regole dell’interazione sociale (compreso, più che mai, l’abbigliamento).
Negli anni in cui la generazione Easyjet non aveva ancora visto la luce, lo store di Fiorucci era una finestra sul mondo. Ci sono arrivati di lì l’idea di lifestyle, i colori fluo, il multi dep.store. C’è chi dirà “che guadagno”, ma sono tutte cose che hanno segnato un’epoca: quegli anni ’80 in cui Keith Haring affrescava le pareti dello store in San Babila, in cui il Plastic faceva feste per Andy Warhol su idea di Fiorucci, in cui Ettore Sottsass a New York progettava il suo store sulla 59esima, dove Andy lanciava il suo magazine “Interview”. Quegli Eighties in cui Madonna, nell’83, cantava – ancora ignorata – a una festa per Fiorucci e in cui uno dei più seri galleristi italiani, Giò Marconi, dedicava una mostra alla sua opera, precorrendo il Victoria and Albert dei nostri tempi.
C’erano e ci sono dei valori dietro queste luccichii procaci. C’erano e ci sono dei valori nelle pubblicità provocanti, nei pantaloni sensuali, negli angioletti kitsch. Tutto sta nella capacità di guardare al di là delle apparenze, che è già in sé un valore.