La pianista Elizabeth Joy Roe mette in evidenza analogie e differenze di due giganti del Novecento, Benjamin Britten e Samuel Barber
Dialogo pianistico tutto anglosassone tra Benjamin Britten e Samuel Barber: la solista Elizabeth Joy Roe attraversa l’Atlantico musicale che separa i due autori incidendo per la Decca gli energici concerti per pianoforte e due Notturni.
Distanti nel gusto musicale – malinconicamente rivolto indietro Barber, sempre sensibile al rinnovamento Britten –, i due compositori si ritrovano in una comune cifra di limpidezza comunicativa, oltre che per curiose somiglianze biografiche tra cui il sodalizio artistico e sentimentale con i loro compagni fissi: Peter Pears per Britten, Gian Carlo Menotti per Barber.
La loro principale dote è stata una specie di originalità tonale, o per meglio dire la capacità di far progredire il linguaggio musicale evitando gratuite astrusità di scrittura, mantenendo un’efficacissima impronta personale sempre in continuità con la tradizione.
Nei due concerti qui eseguiti si passa da pagine di nervoso virtuosismo giovanile del Concerto op. 13 di Britten all’atmosfera di ambigua contemplazione del Concerto op. 38 di Barber.
Decorato di scattanti coloriture e ritmiche agilità nel primo movimento, il lavoro di Britten prosegue con inquietanti salti in tre quarti nel Waltz, che culminano nella sinistra tragicità dell’Improvviso – una tragicità anche «luttuosa» specifica Elisabeth Joy Roe, pianista sempre attenta ai dettagli biografici dell’autore eseguito, che proprio intorno ai ventiquattro anni aveva perso la madre –, fino all’angosciante Marcia conclusiva.
Più convenzionale nella sua vena romantica alla Skrjabin, il concerto di Barber mescola nel primo tempo temi declamatori a incalzanti cellule ritmiche, con un imponente sviluppo che vede la pianista destreggiarsi in vertiginosi e difficilissimi climax, per poi impaludarsi nell’obnubilamento straniante del Moderato, languida pausa prima degli ostinati dell’Allegro molto finale.
L’incisione è chiusa da un confronto notturno interessantissimo: due pezzi squisitamente pianistici – appunto notturni –, con Barber in cerca di una struttura pre-chopiniana nel suo omaggio all’irlandese John Field, che di questa forma è il padre, e Britten che in poco più di cinque minuti è capace invece di costruire un paesaggio sonoro che potrebbe ospitare una scena gotica delle sue opere.
Proprio in questo faccia a faccia finale emerge la superiorità artistica dell’inglese. Nel Vizio dell’arte Alan Bennett si immagina che il poeta Wystan Hugh Auden stronchi uno dei capolavori di Britten, Death in Venice, liquidandolo come «storia di un vecchio che vuole farsi un ragazzino». Ma Britten risponde difendendo il suo Aschenbach: il vecchio è innocente.
I personaggi di Britten sono sempre emarginati, degli esclusi che fronteggiano una massa sempre pronta a linciare il diverso, l’originale che non si integra. Perché la poetica di Britten è una poetica dell’emarginazione, del sovvertimento dei valori, capace di emergere addirittura nella sua musica strumentale, che non è mai estranea al contesto sociale presente.
Ad esempio nel Concerto op. 13 Britten è giovanissimo ma è già abile a sufficienza per trasporre in musica lo stato di ansietà che il mondo stava respirando dopo l’Anschluss. Quindi i virtuosismi che Britten scrive non sono mai scontati effetti cinematici, ma sono sempre densi di quell’inquietudine che solo un uomo di teatro sa costruire con i suoi sottotesti.