A trent’anni dal lavoro di Strehler, Toni Servillo avvicina uno dei testi più amati dal Piccolo Teatro, in uno degli spettacoli di punta della stagione
Sette brevi lezioni, non quelle di fisica di Carlo Rovelli ma di teatro. È Toni Servillo che le tiene al Piccolo fino al 18 dicembre: attore e regista in questa nuova produzione, per di più nella parte di un regista teatrale. Servillo entra così nel continuo gioco di rimandi e ambiguità di Elvira, un documentario di semi realtà che è insieme verità e menzogna, testimonianza e rielaborazione del lavoro di Louis Jouvet, teatrante francese da non dimenticare. Parigi occupata, 1940, atmosfera à la Patrick Modiano. Jouvet si rinchiude con tre allievi per provare una scena di Donna Elvira: Don Giovanni di Molière si fa ultimo passaggio verso la vita, ultima speranza di evasione, per lo meno artistica, negli anni sospesi della guerra.
Petra Valentini, Francesco Marino e Davide Cirri sono giovani attori in cerca di personaggi forse impossibili da trovare. Il testo è di Brigitte Jacques, tratto dalle fedeli trascrizioni di Charlotte Delbo, stenografa poco più che ventenne, che non solo comprese Jouvet al punto da seguirlo e trascrivere tutti i suoi corsi, ma sopravvisse addirittura al lager.
In queste lezioni di preparazione per l’esame finale, l’allieva-attrice di Jouvet prova l’ultimo monologo di Donna Elvira. È la scena della sua estrema prova d’amore per Don Giovanni, in cui cerca di redimerlo perché non finisca all’inferno. Ma il suo maestro la interrompe di continuo e indaga le motivazioni di Elvira, i suoi tempi d’entrata, gli accenti. Niente pause, le pause vanno solo in mezzo alla frase, che però è un flusso continuo: l’urgenza si deve spiegare, si deve sentire la sorpresa. Elvira è come sonnambula e la sua grandezza d’animo commuoverà il pubblico: «il suo “Vi ho amato” deve straziare le viscere». Per raggiungere il personaggio l’attrice deve rinunciare alla sua intelligenza e non affidarsi all’esecuzione, ma arrivare al personaggio.
Così pare che la relazione chiave stia tra frase, sentimento e respirazione. Ma Jouvet non svela il trucco: «l’altro giorno l’ho spiegato a Octave…uno degli esempi più belli della mia carriera d’insegnante». Però l’esempio non ci viene detto. Come si arriva al personaggio? Tutto quel parlare teatrale: il personaggio che «c’è» e «non c’è». Parole che gli addetti ai lavori si ripetono fino alla nausea. Qualcosa di evanescente, che si può nominare solo nella contraddizione. Però a volte brilla per l’attimo di una scena e poi scompare. E se ci si è riusciti allora si può e si deve ripetere: «Tu devi recuperarlo, altrimenti non sei un’attrice» dice Jouvet, severo ma giusto.
Metateatro al quadrato, con l’indiscrezione del pubblico che si insinua fino a una sala prove per origliare detti e contraddetti, concetti capaci di capovolgersi di scena in scena. Non per incoerenza di Jouvet ma perché la lezione ogni volta ricomincia dall’inizio, come nei giri a vuoto di Ionesco, e obbliga a cambiare prospettiva sugli attori, a ripartire dal punto opposto. La regola del gioco, a teatro, è che le teorie non sono mai nemiche nella pratica, per quanto contrapposte. Per sei lezioni Jouvet si preoccupa dei sentimenti dell’attrice: sentimenti non ragionati, che vanno fatti crescere fino a che non traboccano ed è questo, solo questo, che costringe a recitare. Ma alla settima lezione, prima del buio finale, Jouvet si ritrova controcorrente: «Quando tu dici senza emozione: “Ve lo chiedo con le lacrime” è infinitamente più commovente».
Prova intelligente di Servillo, che riprende un classico di Giorgio Strehler con cui fu inaugurato il Teatro Studio trent’anni fa. Ma rispetto all’interpretazione di Strehler, Servillo è misurato e discreto, non sentenzia ma suggerisce alla sua allieva, da vero regista al lavoro. Petra Valentini è brava ma un po’ uniforme: le manca forse lo stupore del personaggio che si accorge e scopre quello che fa, intuendo quanto potrebbe fare. Tra una lezione e l’altra solo il buio e una data, da febbraio a settembre del 1940. Un discorso di Goebbels sentito al di là delle porte chiuse della sala incombe su questo percorso beckettiano destinato a non concludersi.
Foto di Fabio Esposito