Spagna come Italia. A colloquio con la regista Icíar Bollaín: la nuova emigrazione nel suo ultimo lavoro, la violenza domestica, il ruolo del cinema
In terra straniera. Come un guanto perduto, metafora di una protesta e dell’essere divisi a metà. Tra quello che si lascia a casa e quello che si trova in terra di emigrazione. Non più (solo) barconi, non più storie che riguardano “gli altri”. In Europa, giovani spagnoli, giovani italiani lasciano i loro paesi afflitti dalla crisi e vanno in cerca di lavoro, moltissimi nel Regno Unito. Soltanto a Edimburgo, Scozia, vivono ben ventimila spagnoli, nel 2013 94 mila italiani (dati Migrantes) hanno lasciato il paese e , certifica l’Istat appena due giorni fa, la maggior parte approda in Gran Bretagna. Questa nuova emigrazione – spesso di laureati (sono il 30% degli italiani che lasciano il paese) che trovano impieghi al di sotto della loro qualificazione – comincia ad avere un suo racconto.
Ne parliamo con la regista Icíar Bollaín, conosciuta in Italia per avere girato il premiatissimo Ti do i miei occhi, uno dei film che per primi – era il 2003 – hanno squarciato, con grande profondità di sguardo, il silenzio sulla violenza domestica. Bollaín è l’autrice di En tierra extrana, documentario girato tra gli spagnoli di Edimburgo, che ha debuttato tra gli applausi commossi all’ultimo festival di San Sebastian. Il documentario ha raccolto le storie di nuovi viaggi, come quello di Gloria, 31 anni, laureata in Belle arti in Spagna: nella capitale scozzese, dove lavora da Zara, ha dato vita ad un evento artistico e di protesta, raccogliendo i guanti perduti per strada, mettendoli sulla cancellata del consolato spagnolo e invitando i suoi connazionali a indossarli e a farsi fotografare. Non siamo “ni callados, ni perdidos”, questo lo slogan. Un racconto, quello di Bollaín, che può far da specchio all’Italia della crisi e della nuova emigrazione (nel 2013 20,7% in più rispetto al 2012, dati Istat) esattamente come Ti do i miei occhi raccontava di violenza dentro le pareti domestiche, quando ancora da noi se ne parlava assai poco.
Il tuo cinema viene considerato “impegnato”. È una definizione che ti rappresenta? E’ una necessità del momento storico che stiamo vivendo o è la tua visione?
Da sempre provo a capire la realtà in cui viviamo muovendomi con curiosità. E quando comincio a investigare per scrivere una sceneggiatura si concretizza una sorta di impegno nei confronti delle persone e del tema che voglio raccontare. E mi sforzo di affrontarlo con l’intento di dargli profondità e serietà. Ora stanno succedendo molte cose, molte idee che avevamo del nostro paese stanno svanendo e mi piacerebbe contribuire al dibattito. Porre delle riflessioni anche partendo con modestia con un documentario.
Nel tuo ultimo film “En tierra extraña” racconti infatti dei giovani costretti dalla crisi a lasciare la Spagna. Cosa resta a chi non può andarsene? La Spagna è un paese ferito?
In questo momento il 24-25% dei giovani spagnoli sono disoccupati. Tra i giovanissimi il tasso cresce al 56%. Chi resta ha davanti a sé un panorama composto da incertezza, precarietà e dall’impossibilità di rendersi indipendente. Molti giovani non riescono nemmeno a diventare autonomi e a lasciare la casa dei genitori. Per i meno giovani il panorama è forse ancora più incerto. Credo ci sia davvero molto bisogno di un nuovo progetto che dia speranza e nel quale si possa credere. C’è molta corruzione, troppe cose non funzionano e la società si sta sgretolando. Abbiamo bisogno di tornare a credere in qualche cosa.
A tuo avviso perché in Italia si parla invece della Spagna come di un paese “uscito dalla crisi”?
Suppongo sia da addebitare agli artefici dell’austerity, come la Germania, che vogliono inviare un messaggio positivo sulla propria politica. Puntano a dimostrare che i tagli stanno portando a dei risultati. In realtà fino ad ora questi interventi hanno impoverito i cittadini e paralizzato i consumi oltre che a smantellare i diritti sociali e dei lavoratori conquistati con molti sacrifici.
In Spagna da tempo si denuncia la violenza contro le donne in ambito familiare o nella coppia. Il tuo paese ha aperto gli occhi prima dell’Italia e della Francia dove la mobilitazione è iniziata solo negli ultimi anni ed è arrivata sui media dopo i casi più drammatici..
In Spagna abbiamo “scoperto” la violenza domestica negli anni 2000. In realtà c’è sempre stata, ma apparteneva all’ambito privato. Nei primi anni del 2000 la stampa ha cominciato a raccontare alcuni casi dopo un omicidio orribile, una donna bruciata viva dal marito per aver denunciato in televisione i maltrattamenti di cui era vittima. Un caso che ha creato un allarme sociale e che ha portato alla luce i dati e il lavoro sul campo realizzato da anni delle associazioni in difesa delle donne. La violenza si è trasformata da problema privato a pubblico. Il governo di allora, guidato dal Psoe decise di affrontare il problema che divenne tra gli obiettivi principali dell’esecutivo tanto che creò mezzi e istituzioni per combatterlo. Duante il lavoro di ricerca che ho realizzato per scrivere il film Ti do i miei occhi, Francia, Italia e Regno Unito avevano lo stesso problema se non più grave, con numero di morti per violenza anche maggiore rispetto la Spagna. Ma la questione non era presente sui media. Altre questioni come l’abuso sui bambini erano molto più seguiti dalla stampa (purtroppo è un problema ancora molto presente). Quindi nel dibattito si aveva l’impressione che il tema della violenza contro le donne non esistesse o che non fosse drammatico. Quando andai in Francia a presentare il mio film molti mi dicevano che il problema era già stato risolto da loro..Non è vero. Semplicemente non se ne parlava.
I film e l’attivismo culturale hanno aiutato a creare una coscienza civile sul problema della violenza? Possiamo dire che ci sono stati passi avanti oppure no?
Credo che il mio film sia arrivato in un momento in cui c’era bisogno nel dibattito di maggiori informazioni: su dove arrivava questa violenza, su chi era effettivamente il violento e mostrarne il volto, perché distrugge la vita di una donna..Penso che sia servito a capire che il problema è molto complesso, che non c’è solo il bianco e il nero, ma che tutto è molto più complicato perché entrano in gioco molti fattori, come l’educazione. So che il film è stato utilizzato per sensibilizzare ad esempio gli agenti di polizia ed è strumento per gli psicologi nelle terapie con uomini violenti. E questo è davvero fantastico. Probabilmente quello che si è ottenuto in questi anni è che ci sia maggior coscienza sociale e condanna dei maltrattamenti. Ma secondo i dati, le violenze e le intimidazioni non solo non sono scomparsi ma coinvolgono sempre più i più giovani, tra cui gli adolescenti. C’è ancora molto da fare, anche attraverso l’educazione. Non siamo andati molto avanti se una ragazza pensa che il suo fidanzato la ama se le controlla il cellulare o i messaggi privati sui social network.
Immagine di copertina di Deanna Ritchie