Emiliano Ponzi è uno dei più famosi illustratori del mondo. Qui ci racconta il suo percorso, i sogni infantili: quelli che si sono realizzati, e quelli che no.
Emiliano Ponzi, classe 1978, emiliano anche di nascita e milanese di adozione è uno dei più importanti illustratori della scena internazionale e italiana. Quando, appena adolescente, leggeva Dylan Dog per evadere dai confini provinciali di una Ferrara pre-Internet, il suo sogno era disegnare un numero del suo eroe preferito. Oggi collabora con con tutti i “big dogs”: The New York Times, Le Monde, The New Yorker, The Boston Globe, Time, The Economist, Newsweek, United Airlines, Penguin books, Saatchi&Saatchi New York, Leo Burnett Iberia, La Repubblica, Feltrinelli, Il Sole 24 Ore, Mondadori, Wired, Triennale Design Museum. A quanto pare Dylan Dog dovrà aspettare…
Iniziamo con la classica domanda biografica: come si diventa illustratore?
Non ho intrapreso subito un percorso artistico. Ho frequentato il liceo classico. In quel periodo disegnare per me era solo un hobby che mi riusciva molto bene, ma di sicuro non immaginavo di poterlo rendere un mestiere. Leggevo i fumetti Marvel e Dc Comics piuttosto che Bonelli e pensavo che il disegno si limitasse a quello. Nella Ferrara dei miei tempi era impossibile pensare che con un foglio e una matita in mano si potesse arrivare a disegnare un manifesto per promuovere un’automobile. A livello di cultura di base io in quegli anni non sapevo cosa fosse l’illustrazione. Poi sono arrivato a Milano per studiare allo IED e lì è iniziato tutto, scoprendo quante declinazioni può avere il disegno.
Quale è stato il primo lavoro che ti ha fatto pensare “ce l’ho fatta!”?
I primi ingaggi di rilievo li ho avuti dal Los Angeles Times e da Atlantic Monthly. Ma a livello emotivo, è stato più importante iniziare a collaborare con il New York Times. Mandai alcune mail a un guru dell’art direction del NYT presentandomi come il signor nessuno che voleva una collaborazione e di lì a una paio d’ore ebbi la mia prima commissione. Questo è indicativo di ciò che hanno rappresentato e rappresentano gli Stati Uniti, un paese che in certi ambiti ti dà l’occasione, se sei in grado di meritartela.
Lavorare tanto e lavorare per committenti importanti è una cosa che va di pari passo. Inizi in Italia perché è il mercato più vicino alla tua realtà e finisci per declinare il tuo lavoro in altri contesti, mano a mano che aumenta la tua capacità di farti capire.
Dalle origini torniamo all’oggi. Che progetti hai in cantiere?
In questo periodo sto illustrando le affiches della stagione operistica dell’Arizona, un lavoro che presenta molte sfide interessanti. Si devono declinare per il mercato americano opere come la Carmen o il Don Giovanni che hanno un tipo di comunicativa che parte dal Vecchio Continente e affonda le sue radici negli usi e costumi di Spagna, Italia o Francia. Stiamo cercando di realizzare dei manifesti che abbiano senso per noi come per loro, che non hanno mai vissuto nel loro passato l’atmosfera di un’opera lirica. L’anno scorso l’iniziativa è stata un successo. Ci sono altri progetti in cantiere, ma non mi posso sbottonare non essendo ancora stati diffusi dai committenti.
Cosa pensi quando disegna una copertina? Come capisci cosa bisogna disegnare sopra al libro?
In quel caso è molto importante capire la temperatura dell’autore e del libro che si va a trattare. Per cui va da sè che ogni copertina sarà diversa perché diversi saranno l’autore e il suo background culturale. Prima di tutto è importante capire dove siamo. Nelle copertine di Bukowski siamo nel sud della California di fine anni ’60. Con Saramago siamo in Portogallo in tutt’altra epoca e continente. È fondamentale orientarsi come con una bussola, prima a livello geografico e poi temporale. A questo punto si arriverà a un’immagine che abbia in parte i contenuti del romanzo, ma che allo stesso tempo non ne riveli troppo. L’immagine di copertina deve incuriosire, diventando uno strumento attraverso cui “spiare” il libro senza capirne troppo. Gli anglosassoni lo definiscono eye-catching. Non scordiamoci che il libro è un oggetto che affronta le regole del mercato. Un editore non pubblica un autore perché gli dà un’ allure particolare, ma per vendere copie.
C’è un tema che tu non ti sentiresti mai di trattare?
No, anzi. I temi non illustrabili sono forse le sfide più interessanti. Bisogna prendere un ostacolo e attaccarlo da un altro punto. Bukowski, ad esempio: per la quantità di sesso che trasuda dalle sue parole e per l’eccessiva nudità che noi non potevamo far vedere sulla copertina di un libro Feltrinelli, la sfida diventava essere erotici e sensuali senza diventare pornografici.
Cosa significato ha il disegno per Emiliano Ponzi?
Disegnare è un mezzo per esprimere concetti, raccontare una storia. Il disegno è un mezzo per un fine. Niente di più, niente di meno. Un mezzo per veicolare un messaggio in maniera più forte. Di base è un lavoro di comunicazione. Una sua declinazione.
Chi è un artista, oggi, per te?
Gli artisti di oggi, quelli che vediamo nei musei, sono dei designer. Loro hanno un’idea, la sviluppano in team e la fanno realizzare all’interno di uno studio. Sono anche degli art director, la cui opera finisce in un museo, dove il contenuto artistico è più istituzionalizzato che in un negozio. Oggi, insomma, ci sono diversi livelli di applicazione artistica. Soggettivamente, quando vedo qualcosa di ben fatto che racconta la storia della sua creazione, lì intuisco l’artista. L’artista è semplicemente chi prende un messaggio e lo distilla come fanno le api quando creano il miele. E in questa azione, in questo messaggio che decodifichi e rimetti al mondo in una nuova forma, resta qualcosa di te.
Foto: New generation of writers – La Repubblica di Emiliano Ponzi