Emma Dante porta al Piccolo uno spettacolo interessante ma la composizione resta solo accennata, incompleta
Nasce e muore nel buio Misericordia, produzione del Piccolo in scena al Grassi fino al 16 febbraio. Come del resto avviene per tanti altri lavori “in dissolvenza” di Emma Dante, dalla Scortecata alle Sorelle Macaluso – di cui vedremo quest’anno la versione cinematografica.
Lavori in cui la mobilità plastica degli attori è illuminata in modo sempre riconoscibile, un po’ alla Goya, in cui il pensiero dominante è evocare il racconto di un’umanità nascosta, di certe vite dimenticate in bugigattoli fatiscenti ma pieni di ricordi, di deliri, di dolori, forse persino di felicità. Di certo pieni di amore, nel senso meno retorico e ricattatorio possibile.
Già il titolo, sospeso tra il catechismo e l’imprecazione, lascia intendere la doppia natura degli affetti delle tre protagoniste, le coinquiline Anna, Nuzza e Bettina.
Da una parte il logorìo dei risentimenti reciproci, dei continui rimproveri quotidiani: le fette di formaggio sottratte dal frigo, il calore scroccato dalla stufetta in inverno, la miseria che non lascia mai tregua, che costringe le tre donne a passare dalla calza ai clienti con rassegnato zelo.
Dall’altra la compassione per la condizione del quarto coinquilino, Arturo, figlio “scimunito” di un’amica che non c’è più, che non ce l’ha fatta, vittima di un uomo violento che l’ha ammazzata a forza di calci e pugni.
Di lei restano solo pochi ricordi, che le donne affidano a questo figlio speciale che si sono ritrovate a crescere, finché gli preparano il bagaglio per un viaggio non meglio specificato: avventura pinocchiesca dal finale aperto e vacillante, in cui l’unica certezza è quel “mamma” pronunciato a stento, saluto del figlio alle sue tre madri, terribile e struggente.
Bravissime Italia Carroccio, Manuela Lo Sicco e Leonarda Saffi: un po’ collodiane, un po’ streghe del Macbeth, rappresentanti in scena di una maternità ancestrale che non ha niente di biologico, ma che scova ragioni più profonde e archetipiche. Bravissimo il danzatore Simone Zambelli, con le sue evoluzioni convulse e sgraziate, appassionate e commoventi. Abile come sempre il gioco registico, fisico e spietato, quasi sempre in avanscena, orizzontale e sfacciato. Certo l’atmosfera dello spettacolo è quella che ci si aspetta ogni volta: la Dante ha uno stile, che forse oggi è una maniera.
Ma rispetto ad altri suoi lavori, stavolta i sessanta minuti del racconto sembrano solo abbozzati, come se la regista avesse ritratto la mano proprio nel momento in cui le logiche (melo)drammatiche prendevano forma. Così in Misericordia la composizione resta solo accennata, incompleta, e lo spettacolo, con la sua esile drammaturgia, si conclude proprio nel pieno della sua introduzione. Resta il marchio di una sincerità espressiva fuori dal comune: la “bottega” della Dante funziona a meraviglia. Non solo per la danza, per la potenza delle immagini, per i dialetti, ma per il modo in cui il suo linguaggio teatrale supera nel risultato la somma dei vari ingredienti.