A quarant’anni da quando venne scritta, la tesi di laurea di Emmanuel Carrère viene tradotta in Italia e pubblicata da Adelphi. Ed è un saggio ricchissimo e affascinante che fa capire quanto dell’immaginario dello scrittore fosse contenuto già in potenza nelle sue prime mosse nel mondo della scrittura. Manipolare la storia, raccontarla dalla piega che non ha preso, amplificare il particolare ignoto ai più (e dargli un peso che scentra la visione d’insieme) appartiene proprio alla tecnica dell’ucronia: ma – attenzione – davvero non è soltanto una questione di letteratura. C’è (parecchio) da riflettere.
È il 1812 e Mosca è data in pasto alle fiamme piuttosto che essere lasciata nelle mani dell’uomo che l’ha appena sottomessa: Napoleone. Lo zar Alessandro I si trova a Pietroburgo, in attesa della prossima mossa del generale che sta mettendo in ginocchio l’Europa. Di fronte a quella Russia appesa a un filo, nella mente dell’imperatore francese si prospettano due alternative: continuare a marciare, provando a rovesciare lo zar messo alle strette; oppure tornare indietro e riassestare le proprie truppe in attesa di sferrare l’attacco definitivo. Intanto l’inverno russo si avvicina, diventando la spada di Damocle che pende sopra l’esercito francese; la decisione deve essere presa velocemente. Confidando nelle forze rimaste, Napoleone decide di proseguire e riesce nell’impresa, incarcerando Alessandro ed estendendo la propria mano fino ai confini del vecchio continente. L’Inghilterra è il tassello successivo e nel giro di poco tempo è posta anch’essa sotto il giogo francese. La forza irrefrenabile travolge ogni possibile ostacolo dalla Svezia all’Egitto, arrivando anche in Asia e in Oceania, che cadono ai piedi del nuovo imperatore. Pure l’America di fronte a lui non può nulla e decide di risparmiare tempo e vite, consegnandosi volontariamente nelle sue mani. Così il 4 luglio 1827 con il mondo ai suoi piedi Napoleone instaura l’Impero universale; naturalmente lui è il monarca e per cinque anni consecutivi regna senza troppe difficoltà – fino a quando un colpo apoplettico improvviso lo stronca all’età di 62 anni.
Molti secoli prima, in Giudea, un uomo ebreo è portato al cospetto del governatore romano Ponzio Pilato, dopo essere stato giudicato colpevole dal Sinedrio di Gerusalemme. Tuttavia, gli incontri con il condannato non fanno altro che consolidare nel governatore la convinzione di essere davanti a un innocente, portato a lui da individui assetati di sangue. Anche in questo caso c’è un uomo davanti a una biforcazione: appendere alla croce lo pseudo-Messia, placando il popolo ebreo pronto alla sommossa, o risparmiargli la vita, accettando la reazione della folla in rivolta, delusa per la mancata condanna?
Da una parte c’è la morte di un eccentrico senza colpe che risolverà la situazione in tempi brevi; dall’altra la sua salvezza che porterà alla rottura di un equilibro precario tra Roma e i giudei. A tutto ciò si devono aggiungere le illazioni di Giuda, il discepolo traditore che nel corso di alcuni colloqui sostiene la necessità della condanna al fine di dare compimento alle Scritture e al progetto di Dio. Ma Pilato non vuole essere lo strumento di nessuno, né vuole essere considerato un debole pronto a cedere alle pressioni di popoli sottomessi: con un moto estremo di dignità e libertà assolve Gesù e spezza il cristianesimo ancora prima che cominci.
Queste catene di eventi possibili, ma mai realizzati, sono solo alcune delle storie che Emmanuel Carrère passa al vaglio in Ucronia, l’ultimo suo libro pubblicato da Adelphi e tradotto da Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco. In realtà il libro, che nel catalogo della casa editrice occupa l’ultimo posto, dovrebbe essere tra i suoi primi – se non addirittura il primo – essendo nato dalla tesi di laurea dello scrittore poco più che ventenne. La pubblicazione italiana, che avviene con quasi quarant’anni di ritardo, dà a chiunque sia affezionato all’autore la possibilità di scorgere già in questo saggio le prime tracce dello scrittore che sarebbe diventato. Tuttavia, anche la pubblicazione francese del libro ebbe una gestazione non breve, venendo pubblicato per POL nel 1986, quattro anni dopo la laurea, quasi in corrispondenza con I baffi.
Il lavoro nasce dunque come un saggio accademico, che viene poi rielaborato e sistemato, fino alla versione finale che leggiamo noi oggi. Naturalmente non perde quella patina erudita propria di un’analisi critica, ma oltre le complesse nozioni di studio si possono scorgere i tentativi da parte del giovane autore di catturare chi legge attraverso il fascino delle proprie meditazioni.
Il fine del libro è chiaro: delineare le caratteristiche di una strategia letteraria che è stata spesso adombrata dalla ben più popolare utopia. Se infatti sui racconti utopici nel corso del tempo sono state prodotte numerose ricerche volte a catalogare e approfondire incredibili spazi ideali, per quanto riguarda l’ucronia Carrère denuncia una carenza di indagini; e ciò, ammette, è stato anche il motivo che l’ha spinto a cimentarsi nel tema.
Già dalle prime pagine del testo il giovane studioso immerge il lettore in una miriade di storie ucroniche, molte delle quali sconosciute non solo al grande pubblico, ma anche a chi è del settore. Per citarne alcune, già ricordate: Napoleone apocrifo. Storia della conquista del mondo e della monarchia universale. 1812-1832 di Louis-Napoléon Geoffroy-Chateau, o Ponzio Pilato di Roger Caillois (in Italia per Sellerio); o anche Il compagno-Dio di Edgar Morin, Il richiamo del corno di Sarban (pseudonimo dello scrittore inglese John Wall, pubblicato da Adelphi) o proprio Ucronia di Charles Renouvier.
Tutte queste sono elucubrazioni mentali, nate dal tentativo di riscrivere la Storia, questa volta senza un duca di Wellington o un Barabba pronto a determinare gli esiti che noi tutti già conosciamo.
Carrère sceglie quindi di raccogliere molte di queste narrazioni e osservarle al microscopio, così poi da poter essere in grado di vedere i punti di contatto e le costanti che costituiscono il genere, lasciando anche affiorare quegli impulsi che spingono l’uomo ad aggiustare o corrompere il passato.
Tra tutti i titoli presi dalla voracità letteraria caratteristica dell’autore uno in particolare desta subito l’attenzione: La svastica sul sole di Philip K. Dick, un romanzo ucronico (pubblicato da Mondadori come L’uomo nell’alto castello) in cui la Seconda guerra mondiale è vinta dalle potenze dell’Asse, che nel 1947 portano gli Alleati a un’inevitabile resa.
Chiunque conosca anche in minima parte l’opera di Carrère è a conoscenza del suo immenso fascino per lo scrittore americano; d’altronde, tralasciando le frequenti citazioni sparse in diversi libri, nel 1995 scrisse proprio la biografia di Dick, intitolata Io sono vivo, voi siete morti.
Come si è già detto, il lettore esperto in Ucronia porta avanti una lettura accompagnata da un’eco, cioè l’invitabile raffronto tra lo scrittore giovane e maturo. Quando nel saggio scrive: «Il nichilismo di Dick, come del resto il suo talento di scrittore, travalica ampiamente, va detto, i limiti di un singolo genere letterario, che sia fantascienza o ucronia», non si può fare altro che notare le semenze di un incontro che darà i suoi frutti più considerevoli anni dopo. Così riecheggiano le pagine del Regno che parlano di un giovane lettore appassionato di romanzi di fantascienza, tra cui naturalmente anche quello appena citato: «Da adolescente sono stato un lettore appassionato di Dick e, a differenza della maggior parte delle passioni adolescenziali, questa non si è mai affievolita. Ho riletto a intervalli regolari Ubik, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, Un oscuro scrutare, Noi marziani, La svastica sul sole. Consideravo – e considero tuttora – il loro autore una specie di Dostoevskij della nostra epoca». O ancora, quando sotto la lente è posta l’ucronia di Caillois su Ponzio Pilato, l’autore non si limita a riportare la trama della storia così com’è narrata, ma ci entra a capofitto: ne racconta i particolari, si addentra nella testa del governatore romano e scova i sentimenti che portano poi alla decisione finale. Inutile dire che, sfogliando queste pagine, è quasi impossibile non sentire proprio la voce del narratore del Regno, che guida il lettore con i suoi studi e le sue riflessioni nel racconto evangelico.
Ma al di là delle trame e del catalogo delle singole storie osservate, ciò che rende il saggio un prodotto già segnato dalla cifra stilistica di Carrère sono le progressive deduzioni che svicolano dalla chiara erudizione per accedere all’intensità di faticose questioni filosofiche ed esistenziali. Come si può far collimare il progetto di Dio, o il determinismo storico, con il libero arbitrio? È vero che cambiando un singolo dettaglio passato, anche insignificante, si riesce completamente a trasformare il futuro? Che rapporto c’è tra un’ucronia e un universo parallelo (di questi tempi tema tanto caro a una certa cinematografia)?
La falsificazione storica porta inevitabilmente a riflettere su cosa sia la Storia, su come funzioni e su quali possibili significati abbiano le parole ‘causa’ ed ‘effetto’. L’autore si spinge fino ai limiti della domanda, sfiorando il regno dell’assurdo. Un esempio potrebbe essere la possibilità di verificare una vecchia citazione di Pascal: «Il naso di Cleopatra, se fosse stato più corto, tutta la faccia della terra sarebbe cambiata», frase che risulta particolarmente pregnante grazie anche all’anacoluto che la spezza. Trascinato quindi in catene di passati plausibili, il lettore è portato a cozzare con il peso delle questioni che prima gli rimanevano velate: il classico gioco, che tutti hanno fatto, di creare una variazione nella propria vita per capire come sarebbe andata, a lettura ultimata assume un aspetto molto diverso, a tratti quasi triste.
Si potrebbe quindi concludere che questa recentissima pubblicazione di un esordio non smentisce il calibro dello scrittore, che riesce a rilanciare sul presente anche la sua tesi di laurea. A questo proposito assume un particolare rilievo il titolo originale del libro, modificato nella versione italiana probabilmente con il fine di ottenere una maggior sintesi. Il titolo completo sarebbe: Le Détroit de Behring. Introduction à l’uchronie. Quasi come fosse un enigma Carrère spiega il perché di un riferimento così criptico e suggestivo, parlando anche di altri possibili titoli che aveva preso in considerazione. Comunque, il fatto a cui il titolo allude risale al 1953, quando in Unione Sovietica il politico e militare Lavrentij Pavlovič Berija cadde in disgrazia, venendo arrestato ed estromesso dal Partito. La vicenda curiosa è che dopo l’arresto vennero inviate delle circolari agli abbonati della Grande enciclopedia sovietica che intimavano di tagliare la voce ‘Berija’, sostituendola con ‘Bering’: è l’eclissi di un uomo rimpiazzato con un luogo. L’episodio a detta dello scrittore è una vera e propria ucronia; o meglio è lo sforzo di un regime totalitario di trasformare il passato, seguendo il classico modello che l’ucronia propone.
Quando ci scontra con questa storia non si può fare altro che soffermarsi per alcuni istanti sulla portata di un meccanismo che non sembra più qualcosa di relegato al solo campo della letteratura. Certamente oggi non ci si imbatte più in circolari politiche che prescrivono l’utilizzo delle forbici per tranciare l’esistenza di un uomo, ma nell’epoca della post-verità tutti possono assistere alla sostituzione dei fatti con feticci artificiali prodotti su misura. Anzi, le creazioni di sostituti inaspettati con fini tendenziosi è qualcosa che l’intelligenza artificiale ci ha fatto scoprire essere a portata di tutti, forse portandoci in un mondo frastagliato da innumerevoli ucronie.