Ci sono le mostre per un artista o le mostre di un artista. Nel primo caso qualcuno (un terzo) allestisce un tributo, nel secondo un…
Ci sono le mostre per un artista o le mostre di un artista. Nel primo caso qualcuno (un terzo) allestisce un tributo, nel secondo un artista prova a farsi strada da solo. Esistono, però, mostre di un curatore, e in quel caso la questione diventa complicata, perché spesso diventano un monumento alla propria capacità ermeneutico-interpretativa delle vicende, più o meno vicine, della storia dell’arte. La mappatura totale, che sembra rinunciare a dare una direzione, per, piuttosto, registrare utopisticamente 1:1 la realtà, pare essere la moda del momento in campo curatoriale, sulla scia lunga del Palazzo Enciclopedico di Massimiliano Gioni (vedi alla voce: Biennale Venezia 2013): Ennesima. Una mostra di sette mostre sull’arte italiana, a cura di (o dovremmo dire di, e basta) Vincenzo De Bellis, si inserisce perfettamente in questo filone.
Ad accogliere lo spettatore ci sono due patres patriae dell’arte contemporanea italiana: Luciano Fabro e Alberto Garutti. È una scelta, questa, coraggiosa: viene creato un parametro, un criterio normativo secondo cui giudicare il percorso che segue, e quanto ne esce è spesso sconfortante. Non si tratta solo, come si dice a catalogo, di trovare un filo, ma anche di misurare la tenuta qualitativa. Pesa, allora, una sorta di accademismo, di maniera, che appaluda le giovani leve italiane degli ultimi trent’anni: Lara Favaretto, Pietro Roccasalva, Roberto Cuoghi e Diego Perrone non paiono aver introdotto grandi novità se in apertura scorrono i testi (artistici e non) degli “artepoveristi” migliori o di Luigi Ontani, se pure si dovessero annoverare questi ultimi nell’empireo dei grandi – cosa su cui si potrebbero anche avere dei legittimi dubbi.
Le pratiche verbovisuali marcano la seconda sezione della mostra: ricerche sperimentali che riflettono sui rapporti tra parola e immagine, tra segno grafico e significato. E qui si parla molto in italiano, o tuttalpiù uno sguardo va oltralpe alla Francia. Sembra sopirsi, nell’un Paese e nell’altro, anche a livello politico, quell’attenzione al verbum, alla parola poetico-politica che scaturiva, anche in arte, dal maggio francese e dagli anni di piombo. Ai nostalgici della parola, a quelli che ancora eleggono a monumento culturale lo schiaffo di Nanni Moretti in Palombella Rossa – “le parole sono importanti” –, a quelli che hanno letto Roberto Longhi e sanno dell’inesausto rapporto potenziale tra parola e immagine, la chiusura di questo capitolo della storia dell’arte italiana, forse pure troppo poco internazionale, continuerà a stringere il cuore.
Mentre si stenta a cogliere il senso di una monografica per Alessandro Pessoli che irrompe a mezzo della mostra, la quinta esposizione entro l’esposizione si focalizza sulla performance. Residui oggettuali, tassidermie fotografiche inquadrano e immortalano momenti alti, il pathos irripetibile delle performances di Vanessa Beecroft, l’indimenticabile Massimo De Carlo scotchato alla parete da Maurizio Cattelan o i movimenti puri di Tino Sehgal. E allora ci si chiede – ma lo si fa da anni –, come per una storia d’amore finita, dove vada tutto quel che c’è stato? Come rubricarlo? Come farlo sopravvivere agli strali del tempo? Cosa rimarrà di quest’arte effimera e potente, rispetto a cui i più giovani Linda Fregni Nagler e Luigi Presicce (o anche Patrizio Di Massimo) paiono anche dimenticabili?
C’è poi un’altra sorta di monografica a rompere il flusso del percorso. In via Lazzaro Palazzi, al 19, a Milano, verso la fine degli anni Ottanta un gruppo di artisti, tra cui spicca Mario Airò, avevano fondato lo Spazio Autogestito di via Lazzaro Palazzi. Una realtà ai tempi molto attiva, con un impianto di intenti assai buono, ma i cui risultati, anche quelli in mostra, stentano a essere ricordati. Si affida, insomma, alle biografie degli artisti più riusciti il ricordo cursorio di questo episodio giovanile, su cui forse ci sarà da fare qualche tesi di laurea, ma da cui opere grandi ne sono uscite poche.
La matrioska più piccola della mostra è infine dedicata alle ultime tendenze. Il primo problema che emerge è proprio nel confine, se non geografico, cronologico, della mappatura. Ma comunque pare di leggere in filigrana da un lato il disagio di una generazione di artisti che non solo non ha saputo cogliere i cambiamenti della scena mondiale, rispetto a cui rimane sempre ritardataria, ma che non ha nemmeno saputo avere il coraggio di distinguersi in quanto corrente nazionale, specificatamente italiana entro il grande corso dell’arte internazionale. C’è, insomma, da ripassare la storia per gli artisti di oggi, che dovrebbero farsi consapevoli della linea alla quale dovrebbero appartenere, e non solo per diritto di nascita: è, quella italiana, una linea d’elezione, un fardello sulle spalle, un testimone in una corsa che però non possiamo mai credere terminata. Ci si consola con qualche nome che – ne siamo certi – rimarrà. E comunque questa mostra consente un ripassino: sarebbe bello se fosse andata più indietro, sfrondando di più e andando all’essenza di una linea, magari per mostrarne il tradimento o l’estinzione (momentanea, vogliamo credere).
Immagine di copertina: Paola Pivi, Senza titolo (asino), 2003. Courtesy Castello di Rivoli (TO).