Sconvolto dalla perdita dell’uomo della sua vita, Charlie, professore obeso che si nasconde on line dalla vista dei suoi studenti, fa un ultimo, disperato tentativo di ritrovare un rapporto con la figlia lasciata da piccola. Aronofsky pesca nel grande immaginario americano disegnando una parabola di mancata redenzione più frastornante che commovente. Rimbalza fra la Bibbia e Moby Dick, dipinge un ritratto di assoluta infelicità, si perde in un accumulo di parole e movimenti di macchina
Enorme, infelicissimo, solitario, il corpo deformato dall’obesità, la mente dilaniata dai sensi di colpa, Charlie (Brendan Fraser) è un uomo in bilico sul baratro. Professore di letteratura costretto a insegnare online, si nasconde anche agli occhi dei suoi studenti, tenendo la videocamera spenta e riducendosi a poco a poco in una condizione di quasi totale immobilità. La sua deriva autodistruttiva è iniziata quando ha perduto l’uomo della sua vita ed è rimasto solo, in balia di una fame insaziabile che lo spinge a mangiare compulsivamente a qualunque ora del giorno e della notte, e di un vano bisogno di espiare i propri peccati, ottenendo un impossibile perdono.
La sua stazza è smisurata quanto la sua vergogna, il suo corpo è diventato una prigione, man mano che la sua casa si trasformava in una fortezza. Pochissimi sono ammessi all’interno del recinto, in questa sorta di cerchio magico che somiglia più che altro a un fortino assediato: Liz (Hong Chau), un’amica infermiera tanto generosa quanto impotente; Thomas (Ty Simpkins), giovane missionario ossessionato dalla fine del mondo che teme imminente; Mary (Samantha Morton), l’ex moglie ancora annegata nel rancore; Ellie (Sadie Sink), la figlia che Charlie aveva abbandonato bambina per inseguire il sogno smagliante e doloroso di un amore libero da ogni condizionamento e capace di bastare a sé stesso.
È candidato a tre premi Oscar, The Whale, e almeno quello per il miglior attore protagonista se lo meriterebbe senza dubbio. Il nuovo film di Darren Aronofsky ha più di un difetto, ma niente che possa essere imputato a Brendan Fraser, che di suo riesce ad aggiungere a molte scene convinzione e tenerezza, pura e semplice, struggente compassione.
Adattando l’opera teatrale di Samuel D. Hunter (che collabora anche alla sceneggiatura), Aronofsky pesca nel grande immaginario americano disegnando una parabola di mancata redenzione più frastornante che commovente, rimbalzando fra la Bibbia e Moby Dick, e dipingendo un ritratto di assoluta infelicità dove anche gli spiragli di luce sono destinati subito a inabissarsi nella spirale nera della più inesorabile autodistruzione. In una ricerca di espiazione che diventa a tutti gli effetti una scelta di martirio.
Aronofsky non è certo nuovo al tentativo di afferrare l’essenza più pura della bellezza esplorando l’osceno, l’orrore, il male, disegnando con pazienza le perverse sfumature di anime divise in due, ferite e perdute, condannate a inseguire per sempre un’impossibile salvezza. A volte – in The Wrestler, per esempio – è riuscito a condurre in porto l’impresa con mirabile energia e compassione, altre volte, ed è questo il caso, si è perso in un accumulo di parole e di movimenti di macchina, in una concitazione che vorrebbe essere drammatica e finisce con l’essere isterica, soprattutto nella recitazione troppo inutilmente sopra le righe della giovanissima Sadie Sink.
The Whale di Darren Aronofsky, con Brendan Fraser, Sadie Sink, Hong Chau, Ty Simpkins, Samantha Morton.