Rileggendo Dickens: tutti i motivi (senza ipocrisia) per i quali avere un cuore caldo e generoso conviene, migliora l’umore e vi fa avere ottima stampa
Il Canto di Natale di Charles Dickens è un testo del 1843: ebbe subito un successo clamoroso e ha continuato ad averlo nei successivi 161 anni. I motivi di tale trionfale persistenza in tanti Paesi del mondo sono tre: la qualità della scrittura e della struttura; la potenza narrativa; la critica aspra dell’egoismo solipsistico nei suoi aspetti psicologici e sociali. Viene da chiedersi: ma ha ancora senso rileggere e far leggere questa novella, che racconta dell’Inghilterra nei decenni del capitalismo schiavistico, della miseria davvero nera, dello sfruttamento più bieco, dell’assenza di ogni welfare?
La risposta dev’essere positiva e non solo perchè siamo tornati a misurarci con il neo-schiavismo anche nelle aree avanzate del globo, con la crescita soffocante delle diseguaglianze sociali, con lo smantellamento dello stato sociale. Ma anche perchè abbiamo bisogno di riscoprire la generosità, per più motivi.
Il primo ha a che fare con la pressante necessità che tanti, troppi umani hanno di ricevere aiuto materiale e affettivo: un aiuto che sempre più spesso non viene più dal ‘pubblico’ e che quindi deve derivare – in parte o in tutto – dall’impegno privato, individuale o di gruppo.
Il secondo motivo rinvia all’imbarbarimento della vita sociale, oggi dominata dall’indifferenza, dall’egoismo, dall’individualismo, dal darwinismo sociale: il che richiede una nuova cultura basata sull’attenzione all’altro, sull’ascolto, sulla collaborazione, sulla cooperazione, sulla civiltà nei rapporti umani.
L’ultimo motivo è quello su cui vorrei soffermarmi: esso concerne i vantaggi dell’oblatività per chi dà e non solo per chi riceve. Di questi vantaggi mi sono occupato in alcune ricerche sociali svolte per vari committenti. Anzitutto, impegnarsi nel volontariato, finanziare buone cause, fare la carità, darsi dal fare per gli altri migliora l’autostima: i generosi più della media godono di una buona autoimmagine, si hanno in simpatia, si vogliono bene.
Di più: essere oblativi rende più felici, ossia incrementa la realizzazione esistenziale. Di quanto? Del 18% rispetto alla media, almeno per quel che concerne la felicità dichiarata.
Non basta: avere e mostrare concretamente il ‘cuore caldo’ accresce il consenso sociale, l’apprezzamento da parte degli altri. Tutto ciò è meravigliosamente raccontato – con gotica creatività – da Dickens, che descrive benissimo i frutti positivi della conversione di quel mostro d’insensibilità che è il vecchio Scrooge. Eppure, da secoli c’è chi obietta: non è impura la generosità di chi aiuta gli altri incamerando vantaggi per sè? O, in altri termini, non è contraddittorio l’orientamento di coloro che si attivano a favore di chi ha bisogno pure al fine di essere apprezzati da sè e dalla società?
Ebbene, oggi come ai tempi di Dickens, il punto chiave è che la generosità totalmente disinteressata è stra-ordinaria, cioè fuori dall’ordinario: statisticamente assai minoritaria, a volte quasi eroica, propria dei santi (al più dei beati). Dai comuni mortali possiamo pretendere che siano (che siamo) buoni anche – non solo! – con finalità egoistiche. In altri termini, dobbiamo accettare e anzi valorizzare l’altruismo egoistico: il darsi da fare per gli altri sia per gli altri, sia per sè. In Dickens Scrooge non passa da diabolico a divino, ispirato dagli spiriti che colonizzano le sue notti e i suoi giorni: no, semplicemente si umanizza, diviene umano e dunque imperfetto. E questa è la ‘lezione’ permanente del Canto di Natale.
Illustrazione di Federico Maggioni, tratta da Charles Dickens, Canto di Natale, Corraini editore