Due esordienti di qualità: l’autore Carlo Dossi e il protagonista Simone Tudda, forti di un premio Hystrio ben meritato, portano in scena con raffinatezza la vicenda di Enzo Tortora, all’Elfo fino a domenica
Lo sciabordio del mare della sua Genova, i piedi scalzi di chi vuole tenersi ancorato alla terra, di chi non mette filtri con la realtà, e i lampi violenti dei fotografi che mordono come zanne. Tre elementi eloquenti, per raccontare “Nell’occhio del labirinto. Apologia di Enzo Tortora”, in scena fino al domenica 18 al Teatro Elfo Puccini, per far rivivere un caso, umano e di cronaca, colpevolmente svanito dalla memoria dei millennials tanto quanto era stato scolpito in quella dei loro genitori. Forse per questo è ancora più significativo che a riportarlo in scena sia uno di loro, Simone Tudda, che a Tortora presta la voce calda e raffinata di chi, come il conduttore ligure, aveva iniziato in radio, e doti affabulatorie da incantatore.
Per raccontare Enzo Tortora, però, il prigioniero, l’uomo, il padre, serve qualcos’altro. Serve provare a immaginare cos’è l’Italia di Portobello, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, i ventisette milioni di persone che ogni settimana aspettavano il mercatino del venerdì, dalle cui rubriche sarebbero nati tutti i capisaldi della Tv italiana, perdendone però per strada, spesso, il garbo. Lo stesso Paese in cui, nel carcere di Forte Longone, Domenico Barbano e Giovanni Pandico, ammazzano il tempo cucendo centrini da mandare, come si faceva, proprio a Portobello. Ed è nella scatola di quei centrini che arriva negli studi milanesi, l’accusa grottesca di essere il capo della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Grottesca e devastante, perché, molto prima che il termine fake news diventasse di triste uso comune, si usava già coprire le mancanze delle istituzioni con operazioni roboanti, mettere a schermo dei propri fallimenti un nome grande abbastanza da riempire nove colonne di quotidiani, e far finire un uomo dentro a un labirinto nero che si stringe sempre di più, nelle atmosfere cupe di un incubo già reale che Chicco Dossi tratteggia in un testo elegante e denso, pieno di ritmo.
Perfetto, si è detto, per un radiodramma, ma a cui Simone Tudda presta un corpo sempre in bilico sul filo dell’equilibrio e – per questo – precisissimo. Per una corsa a cui basta un salto per finire dentro la vita di Tortora, che il primo palco l’ha calcato con la compagnia Baistrocchi, dove una manciata di anni dopo avrebbero esordito un certo Fabrizio De Andrè e un certo Paolo Villaggio, col quale Tortora condividerà la scena, prima di venire reclutato nella nascente televisione come il quarto moschettiere tra i grandi conduttori degli anni Cinquanta, lasciato sempre un po’ a margine, fuori fuoco, in pericolo di essere tagliato fuori dall’inquadratura. Come succede quando qualcuno decide che Tortora, l’amico di tutti, l’uomo per bene, debba diventare Tortora il criminale, ed eterna – a bella posta – le sue immagini con le manette ai polsi che faranno cambiare la deontologia professionale della categoria. (Oggi nessuno, neanche i più pericolosi assassini, può essere sbattuto in prima pagina in catene, proprio perché, nel 1983, è toccato a un presentatore televisivo).
Enzo Tortora, però, usa il suo corpo scenico per farsi strumento degli altri che, subendo le stesse ingiustizie, non hanno la sua voce. Fino a diventare, per questo, il volto del Partito Radicale in Europa “per completezza, per affinità, per scherzo”, ma senza paura di abbandonare il paracadute istituzionale quando c’è da gridare la propria innocenza.
Seguire in scena la vicenda di Enzo Tortora e del suo tempo, fra politica e calcio, camorra e televisione, scivolando tra lo sguardo esterno, che racconta un mondo, quello incollato alle luci livide del televisore, e il suo, mentre racconta la sua innocenza, significa avere una lente per identificare il male. Perchè la sua storia rende evidente che “il compito dei parassiti non è far fuori il corpo che li ospita, ma consumarlo” dall’interno. La vicenda di un presentatore ucciso più dall’odio che da un tumore che lo coglie prima dei sessant’anni, finalmente – ma troppo tardi – da uomo libero. Le accuse si sono sciolte in poche parole, ma la vita Di Tortora è cambiata per sempre. La sua voce, che grida anche al presente “io sono innocente, spero con tutto il cuore che lo siate anche voi”, illumina le pagine terrificanti di un sistema giudiziario che, per i successivi dieci anni farà seguire un chirurgico smantellamento del lavoro dei giudici contro la criminalità organizzata, arrivati in seguito a proclami a prime pagine unificate a proposito del “venerdì nero della camorra” che portano ad arresti di centinaia di persone innocenti tra omonimie e falsi avvistamenti, e centrini diventati metafore per qualcosa che non sono. Una vicenda che è, però, anche il termometro di una società che non è più quella di Portobello ma somiglia tragicamente a quella mediatica che ci siamo abituati a considerare normale.
“Nell’occhio del labirinto”, prodotto dal Teatro della Cooperativa. fa sintesi di un immaginario onirico e potente e di intenzioni militanti, e dimostra l’efficacia in scena di un lavoro molto ben scritto e di una costruzione scenica misurata e accurata, che con pochi suggestivi accorgimenti trasforma la cravatta della rispettabilità sociale nel cappio del giudizio senza appello. Ma, soprattutto, rivela un attore di talento, magnetico e capace di una ben studiata intensità. Se non consola sulla sorte, sempre più mediatizzata, della giustizia italiana, sicuramente lo fa sulla sorte del nostro teatro, capace di produrre lavori di questo livello.