Don Milani secondo me

In Letteratura

“L’uomo del futuro” di Eraldo Affinati ci propone un ritratto molto soggettivo di Don Milani: la vicenda di un uomo, di un educatore, di un prete, il cui messaggio si rivela inattuale perché inattuabile

«C’è un momento per la scuola e uno per il gioco. Se confondessimo le due dimensioni, bestemmieremmo il tempo». L’espressione è convincente, il messaggio inattuale. Eraldo Affinati ha raccontato una storia datata. L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani ci propone un ritratto molto soggettivo: la vicenda di un uomo, di un educatore, di un prete, il cui messaggio si rivela inattuale perché inattuabile. Nel 1958, con la pubblicazione di Esperienze pastorali, don Lorenzo Milani ebbe il merito di quella che Affinati definisce l’«intuizione pre-conciliare» di una «sconfitta comunicativa»: una sconfitta che il sacerdote tentò di cancellare con l’«ottavo sacramento» della Scuola Popolare, ma che tale è rimasta.

Stupisce quasi il secondo posto di Affinati al Premio Strega. Dev’essere finito in cinquina per alcune chiavi di lettura che non possiamo che percepire come giuste. Scrive Affinati che Don Milani «non ci lascia un’opera, una filosofia, un sistema, un progetto, ma energia allo stato puro». Sarebbe però riduttivo identificarlo solo con il suo carisma: la sua rappresentazione più fedele è una scuola in cui il maestro «dice cose in cui crede»; il suo testamento, il messaggio che «solo la lingua ci rende sovrani». Don Raffaele Bensi, suo padre spirituale e controverso esponente del cattolicesimo fiorentino dell’era La Pira, riconobbe in lui, sin dal suo primo avvicinamento alla fede, il vantaggio derivante dall’estraneità alla tradizione, che del cristianesimo aveva già attenuato l’istanza di fondo, ovvero la speranza.

Don Bensi fu uno dei destinatari più importanti della corrispondenza di don Milani, che, nel suo insieme, rende appropriata la riflessione di Affinati sulla matrice epistolare della sua ispirazione. Tra le altre lettere si distinguono quelle scambiate con la madre, Alice Weiss, e la famosa risposta inviata alla studentessa napoletana Nadia Neri nel 1966, nella quale il priore dichiarò senza falsi pudori che «di fatto si può amare solo un numero di persone limitato». Oltre al vasto materiale epistolare, si distinguono Esperienze Pastorali (1958) e Lettera a una professoressa (1967), due opere dirompenti, seppure in maniera diversa. La pubblicazione di entrambi i testi fu fortemente voluta dal priore: nel caso di Lettera a una professoressa, pubblicata a nome dell’intera Scuola di Barbiana, don Milani non esitò a sollecitare Vittorio Zani, titolare della Libreria Editrice Fiorentina, per vincerne ogni remora e titubanza, consapevole di non avere molto tempo a disposizione.

Quello di don Milani è un dramma di disarmonia. Scrisse a sua madre nel 1949: «Io son sereno solo quando son sempre “intonato” con ogni evenienza. Cioè quando il mio pensiero o attività non stona con nulla d’altrui che possa accadere». Molti giudizi autorevoli fecero di lui una figura controversa; Affinati ne ricorda almeno tre: Luciano Bianciardi, recensendo Esperienze pastorali, si diceva certo della produttività di un auspicato dialogo con il moralismo milaniano; Pietro Ichino riconduce ad un ammonimento del priore la genesi del proprio impegno sindacale; e ancora Giacomo Devoto che, un anno dopo la morte di don Milani, nel 1968, ne sottolineò come tratto dominante l’aristocrazia intellettuale – retaggio del privilegiato milieu familiare – che risultò infine «immersa, ma non annullata, in un’aristocrazia morale».

Don Milani infranse senz’altro volontariamente l’anonimato cui l’avrebbe relegato il ruolo di prete di campagna; lo fece, probabilmente, per ricordare al maggior numero possibile di italiani che in alcune circostanze ci sono strumenti più efficaci di un vocabolario per appropriarsi delle parole come strumento di emancipazione.

In Lettera a una professoressa si legge quest’apostrofe: «Per contentare lei basta saper vendere la merce. Non star mai zitti. Riempire i vuoti di parole vuote. Ripetere i giudizi del Sapegno con la faccia d’uno che i testi se li è letti sull’originale».
«Ripetere i giudizi del Sapegno» mi suona terribilmente familiare: per il mio professore di Lettere del liceo si trattava del più autorevole fra i “critici”, l’unico in grado di sciogliere i nodi problematici delle tre Cantiche. Solo agli stessi autori riconosceva un’autorevolezza ancor maggiore di quella degli studiosi: i loro versi e i loro paragrafi, quelli sì, dovevamo dichiaratamente “saperli a memoria”. La Scuola Italiana mi ha insegnato a rispettare Dante, Manzoni, Ungaretti; loro e molti altri formano la mia personale biblioteca di don Ferrante: Affinati si rifà ad un passaggio dei Promessi Sposi che, nelle pagine finali, ce ne mostra i volumi dispersi lungo i muriccioli dopo che il proprietario, colpito dalla peste, era morto «come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle». Don Ferrante se la prendeva forse con la sostanziale “inutilità” di una cultura che comunque ci sopravviverà.

Il legame fra don Milani e Manzoni è stato già suggerito da un altro critico autorevole. Complice la morale cattolica, ha osservato Romano Luperini, la responsabilità individuale e il libero arbitrio hanno assunto maggior rilievo, nel pensiero manzoniano maturo, rispetto alla responsabilità collettiva e “pubblica”. Al criterio storico Manzoni sostituì col tempo il giudizio del singolo, e la contrapposizione con le posizioni di Verri si gioca tutta sulla distanza che intercorre tra il conservatorismo del primo e il riformismo dell’altro. Luperini legge in quest’opposizione un conflitto non limitato al binomio cultura cattolica-Illuminismo, ma valido anche in seno alla Chiesa, in relazione al filone di cui don Milani sarebbe stato iniziatore. L’assunto di Lettera a una professoressa era che non si potesse usare lo stesso metro di valutazione per il figlio del contadino e il figlio del borghese; il determinismo milaniano, posto dal priore alla base del giudizio, rende dunque la sua azione una sorta di manifesto antimanzoniano.

In Storia della colonna infame, non a caso, Manzoni chiama in causa ripetutamente la passione, l’arbitrio e l’infamia. L’Italia di don Milani è una grande Scuola, una biblioteca di don Ferrante, una Barbiana dai confini dilatati.

L’uomo del futuro di Eraldo Affinati non è immune dalla retorica del caso; eppure è possibile immedesimarsi nei barocchismi personali dell’autore, in «moti sentimentali, crucci emotivi, interrogazioni e mulinelli del pensiero».

L’operazione di fondo però non convince: sul finire dell’opera l’autore riprende un appunto di Ernesto Balducci, il quale notava che «le Barbiane del mondo dicono che noi ci comportiamo come se il mondo fossimo noi». Si tratta di una riflessione annotata a margine di un passaggio ben più categorico di Lettera a una professoressa, dove si legge: «tutta la vostra cultura è costruita così. Come se il mondo foste voi». L’autore ha dunque cercato lo spirito di don Milani in giro per il globo: i capitoli dedicati al priore sono infatti intervallati dai racconti di viaggi nel corso dei quali Affinati è venuto a contatto con risvolti problematici del mondo giovanile: in Gambia, a Berlino, in Marocco, a New York, Pechino, Benares, a Città del Messico, Volgograd e Hiroshima.

Avrei preferito che Affinati restituisse in primo luogo il don Milani che lui stesso tratteggia nel passaggio forse più “duro” di un libro sostanzialmente “buonista”: un uomo «capace di illuminare, ancora una volta, il Bel Paese: quello di Vico e Romagnosi, Cattaneo e De Sanctis, Machiavelli e Campanella, multidisciplinare e fuori dagli specialismi, filologico e conoscitivo. La terra nascosta dei monaci ribelli, degli scienziati fatti passare per pazzi, dei liberi spiriti incompresi: Savonarola, Galileo, Sarpi. Eterna perdente e mai veramente nata». Affinati, forte del suo impegno di educatore non solo al servizio dello Stato, sarebbe stato sicuramente in grado di raccontarci quel personaggio.

Ultimamente ho sentito lo spirito di don Milani nelle parole di un’amica, che nella vita vorrebbe insegnare. Quest’anno le è stata affidata una supplenza di Storia e Geografia in una scuola media della provincia di Como: in barba ai “consigli orientativi” dei professori, le famiglie dei 17 ragazzi della sua terza hanno deciso che nessuno di loro si iscriverà al liceo. Nessuno di loro ci proverà. Barbiana, oggi, è una scuola media di provincia, la scuola dei ragazzi che non se ne andranno dall’Italia, ma neppure avranno la coscienza di rimanere per scelta.

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