Dopo il “Commesso viaggiatore” torna in scena con Mariano Rigillo e la regìa di Dipasquale “Erano tutti miei figli”, tragedia americana su compromesso, plusvalore e ipocrisia
Dieci anni fa moriva Arthur Miller. Non fu soltanto il “marito intellettuale” di Marilyn Monroe, ma soprattutto il drammaturgo che in piena guerra fredda, in anni di caccia alle streghe verso chi si sottraeva allo sciovinismo e alla propaganda made in USA, decise di raccontare gli effetti collaterali di ciò che la nazione indicava come un portentoso toccasana, un unguento di libertà: il capitalismo e la forma di società che ne derivava.
Se il capolavoro della sua carriera “contro” rimane Morte di un commesso viaggiatore (1949) l’opera-svolta che portò lo scrittore sotto i riflettori, risale a qualche anno prima.
Erano tutti miei figli narra le vicende della famiglia di un ricco imprenditore, Joe Keller, la cui reputazione e prosperità lavorativa sono state in passato sull’orlo di un baratro: durante il secondo conflitto mondiale la sua azienda ha venduto all’esercito una partita difettosa di “teste di cilindro” (componente essenziale dei P40, gli aerei da guerra americani) causando la morte di numerosi piloti. Un episodio oscuro, le cui responsabilità non sono mai state veramente accertate, una tragedia insoluta la cui eco si ripercuoterà nuovamente sui precari equilibri della famiglia.
“Erano tutti miei figli è un testo importante, attualissimo,” afferma Mariano Rigillo, nome di punta dello spettacolo prodotto dal Teatro Stabile di Catania in collaborazione con Doppiaeffe “tanto che nella messa in scena non abbiamo cambiato nemmeno una virgola!”.
E in effetti la regia di Giuseppe Dipasquale sembra piuttosto educata, quasi timorosa nel non voler intaccare il testo con scelte azzardate: i movimenti degli attori sono ordinati, prevedibili e composti anche negli scontri verbali più accesi, e, come nel più fulgido esempio di teatro da camera, la quarta parete rimane sempre innalzata quasi fosse l’involucro di un oggetto da collezione che non si deve violare.
Volontario o meno che sia, l’effetto “diorama” che ne deriva ha una certa coerenza con la drammaturgia milleriana improntata, almeno in parte, a fotografare l’ipocrisia delle apparenze della società americana.
La scenografia fissa costituita da una veranda con una grande vetrata ne diventa quindi il simbolo ideale: un non-luogo perfetto dove è possibile soltanto intravedere ed essere intravisti; esposti, ma unicamente allo sguardo di facciata della comunità. Come Miller fa emergere lentamente, quasi da sotto la cenere del passato, la fiamma della tragedia, così gli attori di Dipasquale, misurati nella prima parte del dramma, diventano, nella seconda, sempre più inclini al pathos, a ulteriore conferma dell’attitudine di questa operazione a fare della diligenza il mezzo della propria espressività.
Votato a tramandare, quasi si trattasse di un dogma, il messaggio morale/civile sigillato nell’opera di Miller, lo spettacolo di Dipasquale infrange intrinsecamente l’omertoso consiglio con cui si chiude (Dimentica, vivi, shhhh!) per farsi testimonianza. Se non originale, di certo accorata.