Sette amici tra il 1993 e il 2013. L’università, gli ultimi centri sociali, il matrimonio i figli la separazione. Un destino che l’autrice racconta a ritroso invertendo presente e futuro. Come in un grande freddo padovano i sette amici s’incontrano al funerale di Max, morto in Messico in circostanze misteriose.
Ogni generazione ha un diverso cammino per raggiungere il proprio destino che si compone in diverse misure di elementi personali e socioeconomici. Il gruppetto dei sette personaggi di Eravamo tutti vivi (Marsilio) di Claudia Grendene nasce nella prima metà degli anni Settanta e viaggia spedito verso la decadenza dei Novanta. All’Università li assiste ancora un residuo di coscienza politica e spirito di aggregazione poi la disfatta, non solo politica. E l’iter è tristemente noto: matrimonio, figli, separazione.
A fine lettura di Eravamo tutti vivi non so perché mi è venuta in mente l’immagine del film di uno dei miei registi preferiti: Il fascino discreto della borghesia di Luis Bunuel. Tra una vicenda e l’altra, un attentato e l’altro, quel gruppetto bene assortito, in questo caso composto da sette esponenti della borghesia spagnola, passeggia tra colline e strade vuote senza un motivo apparente. Una metafora dell’indifferenza della borghesia per le cose del mondo ma forse anche una passeggiata inesorabile verso un destino sconosciuto.
Il cammino dei sette personaggi di Claudia inizia quando sono ormai maturi, i giochi fatti, i destini compiuti. Giovani adulti che hanno combattuto come potevano il loro destino. Il lettore fa il tifo per tutti loro, o quasi, ma non può più sperare che si salvino. Può solo riannodare i fili delle vite di quei personaggi scritti dagli stessi scaltri autori che scrivono le vite di molti di noi: difficoltà economiche, violenze familiari, perbenismo soffocante, solitudine.
Claudia Grendene decide così di procedere all’indietro, dal disincanto all’innocenza, e la narrazione si mantiene perfettamente coerente e conseguenziale. Pagina dopo pagina il carattere dei personaggi si delinea e prende forza ma alla fine di ogni capitolo ci si chiede come abbia fatto a gestire la marcia contraria, come sia riuscita a ragionare invertendo futuro e passato.
Ad ogni azione corrisponde una reazione, siamo abituati a ragionare così, ma invertendo l’ordine dei fattori, anche in questo caso, il risultato non cambia.
Come in un grande freddo padovano, i sette amici si ritrovano tutti al funerale di Max, hanno passato insieme i migliori anni, hanno fatto politica, frequentato i centri sociali, si sono laureati. Quasi tutti si sono sposati, hanno procreato, e poi si sono separati. Fuori dalla routine Max e Agnese, gli stravaganti, i provocatori del gruppo. Il loro cammino si percepisce sin dalle prime pagine del romanzo.
“Non sei mai stato dentro il mondo mi dico sempre. Nemmeno insieme agli altri lo eri. Eri sempre un po’ più in là, da un’altra parte. Pronto per fuggire. Eri lì in attesa che tutti approvassero la tua diversità”.
Parole di Max che conosciamo solo da morto grazie alle pagine di un diario in cui si firma “Massimiliano Mercuriali, fu Capitan America, fu Joe Fortis, reale e irrazionale. Capelli secchi, sete e vita.”
Con la solennità che gli deriva dall’essere morto giovane in Messico, e perdipiù in circostanze misteriose, Max si conquista all’interno della narrazione il ruolo positivo e negativo del guru, il capo spirituale di questa piccola tribù. Era il figlio di un noto imprenditore che macinava denaro ma quando tornava a casa urlava e picchiava. L’unico gesto gentile alla sua portata era comprare e regalare. Una Harley Davidson, un terreno in Messico.
Il perfetto contraltare di Max è Chiara, nata e cresciuta povera. Lavora per pagarsi gli studi, ha il senso dell’amicizia, non tradisce ma viene tradita. I suoi stati d’animo sono opposti a quelli di Max, non cerca approvazione, non vuole essere notata.
“Chiara guardò gli amici ondeggiare insieme alla folla, per un attimo si domandò cosa facesse lì in mezzo, ma subito intuì che se non si fosse lasciata andare nella stessa onda non si sarebbe mai sentita parte del mondo.”
Intorno a Chiara e Max, tutte le possibili sfumature dalla gioventù. Isabella è una donna generosa, che fa i conti con una famiglia ex benestante e s’innamora di Elia cha ha conti ben più pesanti da pagare.
Anita e Alberto sono gli amanti più appassionati ma sono cugini. Un amore osteggiato dalla famiglia aristocratica a cui appartengono, una passione che non finirà mai tenendo bloccate le loro vite.
Agnese è il personaggio per il quale è davvero difficile fare il tifo. Seduttrice anaffettiva dotata di particolare fascino e spregiudicatezza, non si sposerà mai, farà l’artista in giro per il mondo, terrà i contatti con Max fino alla sua morte. I lettori non la perdonano ma la scrittrice sì.
Eravamo tutti vivi è un romanzo onesto con un narratore per nulla egocentrico e molto compassionevole. Claudia racconta in terza persona perché cerca distanza ed equilibrio. E ci riesce. Ama i suoi personaggi e li perdona con grazia e profondità. Insegna ai lettori adulti il perdono per le proprie vite imperfette e ricorda ai giovani che sbagliare è un sacrosanto diritto.