Pippi compie 70 anni. La festeggiamo insieme a Bibi, Friedel, Nancy, Jo, Sarah, Georgia, Lady Oscar, Hermione che ci hanno accompagnato sin da bambine
Pippi
Avrò avuto otto anni, ma ricordo molto bene il dolore del fil di ferro nei capelli. D’altra parte non c’era altra maniera per tenere rigide le trecce con capelli così lisci come i miei. Mia madre aveva attaccato delle toppe colorate su un vecchio scamiciato verde. Calzettoni di colore diverso, le solite College che portavo a scuola e come ultimo tocco un’abbondante cascata di lentiggini disegnate con la matita da trucco della mamma. A quell’età presentarsi vestita da Pippi Calzelunghe a una festa di Carnevale era un must. Pippi per me era più buona del padreterno, più influente di un maitre-à-penser del maggio francese e più elegante di Audrey Hepburn. Il libro originale edito da Vallecchi aveva la copertina rigida arancione con l’illustrazione di Pippi che stringe il signor Nilsson al petto, e voi sapete di chi sto parlando. Pippi era tutto quello che volevo essere io: coraggiosa, libera, fortissima. Con un cavallo giallo che poteva dipingere a pois, un padre pirata, scarpe comode e unica proprietaria della prestigiosa Villa Villacolle. E poi poteva mangiare tutte le caramelle che voleva e quando pranzava teneva i piedi sulla tavola, mentre a me mettevano i libri sotto le ascelle per imparare a tenere i gomiti uniti. Quando sono rimasta incinta, appena saputo di aspettare una femmina, mi sono precipitata ad acquistare le cassette con gli episodi televisivi e con impazienza ho aspettato il momento giusto per propinarli a mia figlia. Il tedio che ho provato rivedendo quelle scene non ve lo posso descrivere. La lentezza di uno sceneggiato degli anni ’70 è impossibile da sopportare oggi. Ma Pippi rimane la bambina che più ho invidiato al mondo. Oggi si chiama Lisbeth Salander, come ha confessato lo scrittore Stieg Larsson, che per crearla si è immaginato una Pippi adulta. Per via del suo passato disfunzionale ha qualche difficoltà a comportarsi normalmente, ma è ancora libera e coraggiosa. (Francesca Filiasi)
Bibi
Delle letture d’infanzia conservavo un ricordo, non nitidissimo, ma resistente: quello di una bambina di nome Bibi. Non ricordavo per filo e per segno le sue avventure – non rischiava la morte nella giungla, non era rimasta intrappolata sul pack insieme a dei famelici orsi bianchi, insomma non era stata protagonista di qualche catastrofe memorabile – però ricordavo molto bene il suo spirito, e il profumo di libertà che usciva da quei vecchi libri rilegati in tela arancione. Bibi godeva di una condizione invidiabile. Intanto era nata e abitava al nord, in Danimarca, e si sa che alle femmine avventurose e un po’ maschiacce questo si addiceva parecchio. Inoltre era una semi-orfana, nel senso che aveva un papà molto carino e affettuoso che però la lasciava libera di fare tutto quello che accidenti le pareva. Non dico che avrei ammazzato i miei genitori, però sicuramente avrei fatto volentieri cambio. Nei primi anni Sessanta, in cui ci mandavano ancora in giro con il cappottino con la martingala e la cuffietta legata sotto il mento, l’idea di viaggiare per l’Europa senza che nessuno ti impartisse lezioni di galateo o ti dicesse «questo non sta bene per una signorina» pareva un sogno. In seguito, da adulta, ho scoperto che dietro il personaggio di Bibi c’era una donna straordinaria e originale, e che Karin Michaelis aveva sfidato convenzioni e nemici terribili come i nazisti. A differenza delle avventure fantastiche di Pippi, quelle di Bibi forse mostrano un po’ gli anni. È stata ristampata, ma senza grande successo. Questa cosa, dico la verità, mi ha molto addolorata. (Marina Morpurgo)
Georgia Nicolson
No, l’eroina della mia infanzia e adolescenza non è un personaggio della grande letteratura. Avevo circa dodici anni quando mi sono imbattuta in Georgia Nicolson e nel suo gatto più selvatico ( Louise Rennison, Ho toccato il fondo! Tutte le confessioni di Giorgia Nicolson e del suo gatto, Mondadori) che da compagnia e con la stazza di un labrador. Questa ragazzina, protagonista di una saga di libri ideata dalla scrittrice inglese di romanzi rosa Louise Renninson, era troppo vera e troppo divertente per non innamorarmene. Quattordici anni, il naso grosso che neanche il fondotinta più miracoloso riuscirebbe a sfinare e un seno che non si decide a crescere. Una sorellina pestifera di nome Libby, in grado di procurarle le peggiori figuracce con il ragazzo dei suoi sogni, e un padre troppo bacchettone con cui è impossibile andare d’accordo. Le prime cotte, i primi baci e una serie di disavventure che ne fanno una giovane Bridget Jones alle prese con l’adolescenza, da cui farsi ispirare per prendersi meno sul serio e ridere di un’età che non è poi così facile…(Alessandra Lanza)
Lady Oscar
Le donne ghigliottinate durante la rivoluzione francese. In ogni tema scritto al liceo ho sempre trovato posto per Charlotte, Olympe, Manon, giacobine, fanciulle della nobiltà che cantando andavano al patibolo, vittime o assassine poco importava, avevano tutte l’aria di aver vissuto amori scintillanti quanto quella lama. Ma ben prima di leggere L’antico regime e la rivoluzione di Tocqueville, c’era stata Lady Oscar. «Tu non capisci. Non c-a-p-i-s-c-i. Lady Oscar ama André. Ogni volta che la chiami ‘maschio’ uccidi il loro amore, lo uccidi dopo che la rivoluzione si è già presa la loro vita. Tu sei un mostro!» Avevo sette anni e lo gridai a un bambino proto-misogino che accusava Lady Oscar (Davide Castellazzi, Lady Oscar. Amori, segreti ed epiche battaglia Iacobelli editore) di essere un uomo solo perché era una donna forte e coraggiosa; prima di scoppiare a piangergli in faccia scappai via, proprio come avrebbe fatto Oscar. A ventidue anni, condividendo lo studio con altre pittrici, capii che eravamo un po’ tutte Lady Oscar, facevamo lavori pesanti, i muscoli continuamente strappati, impegnate in un lavoro che storicamente e ancor oggi è predominio maschile, in mano uno strumento, il pennello, ben più fallico di un fioretto. Cresciuta aderendo al volere del padre, come narra il ritornello «voleva un maschietto, ma ahimé sei nata tu», Lady Oscar insegna quanto sia doloroso ritrovare la propria identità al di là di ciò che si pensa di dover rappresentare agli occhi dell’altro. Mentre fuori era un gran can can di Carrie e Samantha con i piedi armati di fallicissime Manolo, pronte a stabilire il buono e il cattivo tempo in ufficio e nelle mutande degli uomini, io preferivo Lady Oscar, l’eroina che, andando a ritroso rispetto ai nostri tempi, imparava ad essere fragile. (Sofia Silva)
Friedel, il biricchino di papà
Era Friedel e basta. Saltava, andava a cavallo, ne combinava di ogni, era sempre non del tutto a posto, diceva la sua quando doveva stare zitta (massimo dell’identificazione). In fondo però era buonissima (minimo dell’identificazione). Abitava in tre libri blu cartonati – ce li ho ancora – edizioni Vallardi di metà anni ‘60, con dei graziosi schizzi ad acquerello che ritraevano lei dall’infanzia alla nonnitudine, in un mondo da me assai lontano nel tempo e nello spazio (una tenuta in Austria, cavalli, boccali di birra, fumo di pipa, gentiluomini con l’alpenstock, fine del secolo quell’altro se è vero che la prima traduzione in italiano è del 1905). Era Friedel , Il Biricchino di papà’ raccontata benissimo da Henny Koch, e, facendosi largo tra rigide convenzioni di ruolo cercava di essere se stessa. Come potevo non innamorarmene io che, seconda di tre femmine, ero anche un po’ stata scelta come surrogato del maschio molto atteso e mai arrivato, significando questo prima andare allo stadio con papà, poi vestirsi con i suoi golf, indi entrare in salotto durante una visita di amiche della mamma con un copritavolo a mo’ di scialle (fase inconsciamente prefemminista). L’unica cosa che non mi piaceva? Proprio quel soprannome che sentivo stucchevole alle mie orecchie di ragazzina dei primissimi anni ’70. Ero ormai pronta per Valentina mela Verde e, soprattutto, per Stefi. (Assunta Sarlo)
Jo March
Per ogni bambina con i capelli lunghi il momento in cui Jo March si fa tagliare la chioma (pressoché il suo unico vanto estetico) è decisamente scioccante. Quello che può sembrare – e in parte lo è – un generoso gesto di sacrificio, in realtà è anche uno straordinario atto di orgoglio quasi peccaminoso e una rivendicazione di indipendenza. Per le categorie interpretative di oggi non è certo un testo femminista, ma all’epoca in cui uscì, Piccole donne di Louisa May Alcott (o meglio, i primi due volumi di quella che diventerà una saga) aveva alcuni elementi, diciamo così, rivoluzionari: quattro protagoniste, una madre capofamiglia e almeno un personaggio che esulava in modo coraggioso – per quanto un po’ macchiettistico – dagli standard di femminilità correnti. Jo, la sgraziata, l’impetuosa, l’aspirante scrittrice, che imbastisce rappresentazioni teatrali da lei scritte dirette e interpretate, a cui tutte le sorelle sono chiamate a partecipare. Non mi ritengo originale nel considerarla la mia preferita, mi piace pensare che sia la preferita di tutti, anche perché è proprio in lei che l’autrice si identifica in modo quasi pedissequo, e così tutte le giovani lettrici, che abbiano o meno i capelli lunghi. Jo March spicca tra le altre sorelle – troppo buone, troppo frivole o troppo canoniche – e assurge a protagonista assoluta. Per molti è un peccato che nella seconda parte del libro – Piccole donne crescono – abdichi in parte alla sua indipendenza cercando protezione nel matrimonio con il maturo professore tedesco. Al contrario Louisa Alcott, scrittrice, infermiera e suffragetta, non si sposò mai, e in un certo senso è una versione più radicale della sua amata eroina. (Laura Antonella Carli)
Sarah, la piccola principessa
«Si sbaglia Miss Minchin, io ho capito perfettamente quello che mi sta dicendo. Semplicemente non sono d’accordo con lei››. È con questa frase che l’animo ironico e ribelle della piccola Sarah mi ha conquistato. Ho letto e riletto il romanzo di Frances Hodgson Burnett, uno dei primi regali di mia mamma, fino a consumarne le pagine. Poi sono passata al film che, ancora adesso, rivedo ogni volta che passa in televisione. Quante volte, rientrando a casa, ho sognato che qualcuno fosse entrato furtivamente nella mia cameretta mentre ero a scuola per lasciarmi eleganti abiti nell’armadio, allestire sontuosi banchetti sulla mia scrivania o (ancora meglio) per stravolgerne ogni giorno l’arredamento con nuovi dettagli e colori. E quanto mi sono immedesimata in lei quando, col suo spirito irriverente, faceva ridere tutte le sue compagne imitando i professori del collegio come antidoto alla loro arroganza. Generosa, tenace, anticonformista e molto amata: Sarah è decisamente la mia eroina, non solo d’infanzia. (Serena Cirini)
Nancy Drew
Che fine ha fatto Nancy Drew? L’ho lasciata con la sua chioma rossa e la decapotabile gialla nella mia cameretta di ragazza, quarant’anni fa. E non ci ho più pensato fino ad oggi. Ritrovarla sulle pagine di allora, dopo tanti anni e tanti traslochi, mi sembra un’impresa impossibile. Mi affido allora a Internet e digito su Google il suo nome: scopro che è diventata un film, un videogioco e che viene pure ristampata nella collana Il battello a vapore di Piemme. Ma non la riconosco: la bambolina che vedo adesso assomiglia a un cartone animato, non alla seducente ragazza in minigonna che furoreggiava sulle copertine dei gialli per ragazzi Mondadori e che – ricordo – provavo a ricopiare senza alcun successo e a cui cercavo invano di assomigliare. Certo, Nancy Drew era un’investigatrice dilettante dal potente fiuto che si cacciava sempre in situazioni angoscianti, da thriller. Ma per me, bambina, era soprattutto bella, intrepida e avventurosa e, mentre io con la mia famiglia viaggiavo su una Fiat 125 marrone, lei si spostava a bordo di una decapotabile gialla. Ricordo anche che nascondevo i suoi libri nella cassapanca in camera da letto, per non prestarli ai miei fratelli. Li leggevo furtivamente e li rimettevo sempre lì, al loro posto, dopo aver cercato di ricopiarne le copertine. A dispetto di tanto impegno, non ho mai imparato a disegnare, non ho mai posseduto una decapotabile gialla, e quando ho provato a tingermi i capelli di rosso non ho ottenuto l’effetto “chioma fluente”: non ho mai avuto l’appeal giusto da Nancy Drew. E se oggi guardo a quel mondo, una bambina cresciuta negli anni Settanta, vedo un’immagine che un po’ mi ferisce, un po’ mi persuade. E allora mi dico: forse è per questo che ho giocato di sponda. (Alessandra Bonetti)
Hermione Granger
A undici anni entravo per la prima volta nell’atrio della mia scuola media con una sola grandissima convinzione: comunque fosse andata, avrebbe fatto schifo perché non era Hogwarts e io non ero Hermione Granger. In realtà Hermione all’inizio nemmeno mi piaceva, principalmente perché entrambe nutrivamo una cotta segreta per Ron Weasley, e, come ogni rivale in amore che si rispetti, ero fermamente convinta che lei non se lo meritasse. Così mi ero messa a spiare il nemico, avevo studiato le sue mosse, e in poco tempo avevo capito che, tra lei e Ron, preferivo di gran lunga lei. Hermione non era la ragazza più carina di Hogwarts, se ne infischiava delle mode e guardava con superiorità le gallinelle di Tassorosso come a dire “ehi bella, quando ti troverai in un duello e tenterai di sconfiggere il nemico a colpi di sorrisi e ammiccamenti, fammi un fischio, che vengo a farmi due risate”. Hermione mi ha insegnato che studiare non è da sfigati, perché nella vita dovrai sempre e solo contare sul tuo cervello e su ciò che ci hai ficcato dentro. A lezione di Erbologia tu prendi appunti mentre loro, intenti a giocare con le figurine delle cioccorane, ridono di te e ti chiamano secchiona? Tu guarda e passa, tanto arriverà il momento in cui i furboni si troveranno attanagliati nella morsa del Tranello del Diavolo, e tu sarai l’unica a sapere come liberarli. Ride bene chi ride ultimo, miei cari. Perché, diciamoci la verità, Harry senza Hermione non sarebbe mai uscito vivo dal primo libro. E vogliamo forse parlare di Ron? Di fatti un’altra cosa che Hermione mi ha insegnato è che possiamo anche essere le più intelligenti della scuola, ma, prima o poi, ci innamoreremo di un cretino che dovremo salvare da qualche situazione pericolosa o, nel nostro banale mondo di babbani, imbarazzante. Ma tanto sapremo benissimo come fare. (Francesca Motta)
Le Cultweekers, autrici di questo pezzo, si scusano con altre eroine e soprattutto con Matilda, la bambina sapiente di Roald Dahl, assicurano di non averle dimenticate e, nel caso delle più agée, di aver passato alle figlie le loro storie.
In occasione del 70° compleanno Salani pubblica una nuova edizione rilegata di Pippi Calzelunghe con la copertina (foto) realizzata da Paola Rollo, la giovane vincitrice del concorso Salani per illustratori del 2013. La traduzione,rivista e aggiornata è di Donatella Ziliotto e di Annuska Palme Sanavio.
Foto: Illustrazioni di Ingrid Vang Nyman tratte da : Astrid Lindgren Pippi Calzelunghe, Salani
Copyright Astrid Lindgren Copyright 1988 Adriano Salani Editore s.u.r.l.