Attraverso la voce di Mina, con “Vorrei una voce”, prodotto da LAC e Proxima Res, Tindaro Granata restituisce la luce della scena – e della loro vita – alle detenute del carcere di Messina, in un viaggio di commuovente sincerità individuale e collettiva.
“Credevo di essere padrone della mia storia, e invece ho ascoltato una voce” Mettersi in ascolto di una voce che è stata ridotta al silenzio dall’incapacità (o, spesso, dalla mancata volontà) di farla esistere, dar cittadinanza a una presenza attraverso quella di chi, la sua, ha scelto di negarla, anche per ritrovare il senso della propria. Potrebbe essere questa la sintesi di Vorrei una voce, al Teatro Elfo Puccini fino a domenica 26. Per riuscirci, però, serve chi sia disposto a costruirla, la storia. Come Daniela Ursino, quando chiama Tindaro Granata alla casa circondariale di Messina. Come dare voce alle donne alle rimosse dallo sguardo della società, alle donne sparite come sempre avviene nella coscienza comune quando si chiudono le sbarre, ma scomparse anche ai propri stessi occhi, nelle forme di una femminilità che in quello spazio non ha bisogno né spinta ad esistere. Per un Granata, in cerca della passione e del senso forse perduto di un percorso da ricostruire, la risposta è naturale, ed è la stessa a cui si ricorre quando occorre fare nuova luce sulle proprie motivazioni: ritrovarne le radici.
Dunque, perché non appellarsi a chi della propria immagine ha fatto un’icona senza rivali e guadagnarsi quello di manovrarne l’assenza, di farsi da idolo a sogno lasciando, di sé, soltanto una voce che ha cambiato la storia (anche di tanti colleghi): Mina. Così, al Piccolo Shakespeare di Messina, nel 2019, di Mina torna in scena l’ultimo concerto, datato trasposto dal simbolo della Versilia vacanziera, la Bussoladomani, alla Sicilia di un carcere a cui il teatro riesce a regalare la scomparsa delle sbarre dagli sguardi. Portato nel mondo immediatamente prepandemico dal 26 agosto 1978, la voce di Mina al suo congedo dalle scene incontra – e protegge, attraverso il playback – donne in cerca di un nuovo sipario possibile. (e chissà, forse non solo la sua voce, ci piace immaginare dopo l’incontro di Granata con il figlio Massimiliano Pani, su cui l’attore fa calare un garbato velo di silenzio in perfetta linea con la figura in questione.
La Voce per antonomasia della canzone italiana, che ha, a ben saperla cercare, trovato la parola giusta per eternare ogni vita o ogni suo frammento, diventa allora il veicolo per raccontare quelle di donne che, a loro volta, si svelano e si nascondono. Sono sorelle, figlie, madri (perché è in questa veste, di funzione, che il 90% di loro sconta una condanna, precisa Granata) che a loro volta trovano non solo un’idea di libertà, ma la via per scendere cosa mostrare – le proprie urgenze, i propri affetti, le proprie spinte vitali e i motivi del loro agire – e cosa nascondere. Ovvero la propria identità, talvolta, e in generale quello che ha fatto di loro delle detenute. In mancanza d’altro, sono loro a voler tracciare I limiti delle loro vite, ma – nelle regole del teatro, anche a farle saltare. Non sono, più, ruoli, in scena, né tantomeno una colpa Le loro storie vengono strappate da un buio invadente, che un po’ le imprigiona e un po’, forse, le rassicura.
Assunta, Vanessa, Gessica, Sonia, Rita e le altre, ironiche e appassionate, tradite e cercate recuperano, immaginate dentro paillettes sfavillanti e un arcobaleno di luci, disegnate da Luigi Biondi, che sembra chiamare anche il pubblico in causa in questa restituzione all’esistenza. Per farla avvenire, Tindaro Granata sceglie di mettere in gioco e a nudo la propria, donando al pubblico la sincerità e il magnetismo che ne fanno un interprete molto amato. Cammina su un filo, l’attore di Tindari, con la grazia e il mestiere che occorrono al giocare con le soglie: tra spettacolo e concerto, verità e mestiere, commozione e riscatto. Lo fa restituendo, in scena, il suono a una lingua che è anche la sua, un siciliano che recupera la sua forza espressiva diventando non più solo (come oggi spesso succede) una coloratura, ma il mezzo di espressione reale con cui queste donne si raccontano, sovente senza l’intermediazione semplificatoria della traduzione. Per ricercarsi, e per farsi tramite, a sua volta, di chi riempie gli abiti abbaglianti che lo contornano, (i costumi sono di Aurora Diamanti) Tindario Granata, qui anche regista, ha bisogno di abitare senza sbarre anche maschile e femminile. Prima di tutto il suo. Sul palcoscenico, piega un corpo volutamente indifeso a forme che possono essere l’uno e l’altro, senza doverci necessariamente tracciare un confine. Tiene tutte insieme, in scena. Perché è l’unico modo per sopravvivere. Per dare un nuovo senso al mestiere dell’attore, di chi incanta, emoziona e raccontando crea altre realtà. E – soprattutto, di conseguenza, per smettere di essere vivi soltanto a metà.
Foto: Masiar Pasquali