Il Comune di Pavarolo, l’Archivio Casorati e la Collezione Giuseppe Iannaccone, assieme a Ciaccia Levi Paris-Milan, presentano negli spazi dello Studio Museo Felice Casorati e di CASA CASORATI a Pavarolo, in provincia di Torino, dove visse e operò il grande Maestro della pittura del Novecento, la mostra “Estetica dei visionari”, ispirata a un saggio di Henri Focillon in cui il grande critico francese delinea la visionarità come caratteristica che accomuna artisti di epoche, luoghi e culture diverse nella capacità di visionare piuttosto che vedere la realtà.
Per arrivare a Pavarolo da Torino abbiamo scollinato lasciandoci la basilica di Superga alle spalle: i tornanti e l’ombra degli alberi disordinati sul ciglio della strada hanno ceduto all’improvviso la scena a prati e casette, ma anche castelli, illuminati da un inaspettatamente caldo Sole di fine ottobre – inaspettatamente almeno per chi come noi, arrivando da Milano, aveva già ricalibrato abbigliamento e umore sul grigiore che da un giorno all’altro ha rapito la città lombarda. L’aprirsi di un paesaggio del genere – una vera e propria visione, quasi un sogno – è stato il migliore dei preludi per l’ingresso nello Studio Museo Felice Casorati a Pavarolo che fino al 12 novembre 2023 ospiterà la mostra “Estetica dei Visionari” in collaborazione con la Collezione Giuseppe Iannaccone – partner già nel 2022 in occasione della mostra “De rerum natura” – e la galleria Ciaccia Levi Paris-Milan.
L’esposizione – con opere di Scipione, Margherita Manzelli, Wangechi Mutu, Alessandro Fogo, Charles Avery (dalla Collezione Giuseppe Iannaccone), Amber Andrews, Srijon Chowhdury e David Horváth (dalla galleria Ciaccia Levi) – prende le mosse dal testo di Henri Focillon “Estetica dei visionari”. Pubblicato nel 1926, è dedicato a quegli artisti che “compaiono come accidenti, come scorie. Ciascuno di loro sembra essere a se stesso legge e sistema”: El Greco, Piranesi e Daumier sono solo alcuni dei nomi citati dallo storico dell’arte francese.
A pochissimi anni dopo la comparsa del libriccino di Focillon risalgono i due quadri di Scipione esposti nel piccolo ambiente che fu lo studio di Felice Casorati e che – per la cromia rosso-bruna che si scontra con le pareti bianche e le eleganti cornici in legno intagliato – fungono da richiamo ottico non appena si entra nella sala. Le due opere di Scipione, un Autoritratto (1930) e il Profeta in vista di Gerusalemme (1930), sono messe in risalto pure dalla loro collocazione spaziale. Appese sopra quel che rimane di un vecchio camino ora chiuso, ma di cui rimangono chiaramente leggibili le forme e i materiali – i mattoni e il legno – che risultano gli unici appigli visivi nell’immacolatezza dei quattro muri dritti della stanza, le due opere di Scipione, indiscusso maestro della visionarietà, nonostante la loro distanza dalla porta d’ingresso, danno il vero là alla mostra. Ciò forse avviene anche per ragioni cronologiche, considerate le biografie di tutti gli artisti in mostra, ma pensare a una linea del tempo retta e univoca quando si ha a che fare con dei Visionari risulta fallace.
In mostra il tempo è, infatti, sospeso: non importa indagare il quando – ma nemmeno il dove: gli artisti sono europei, africani, asiatici – bensì il perché. D’altronde, Focillon scriveva che i Visionari non “si legano a un momento storico” e “non sono neppure determinati da formazioni etniche”, ma “è possibile studiarli insieme”, perché nelle loro opere si possono “cogliere delle analogie e delle affinità sul piano psicologico”. Osservando le opere è, dunque, chiaro che il perché, il motore di tutto, il quesito di partenza può essere solo uno: l’essere umano. Delle undici opere esposte – dieci a parete e una scultura – soltanto Glowing roses for Oda di Srijon Chowdhury non ha come soggetto una figura umana. Tuttavia, la presenza di un nome nel titolo ci lascia presupporre l’esistenza di qualcuno a cui le due rose sono regalate. Focillon scriveva che per i Visionari l’uomo “è continuamente superato”, ma perché il superamento di qualcosa avvenga, quel qualcosa dev’essere prima di tutto osservato e compreso.
Le tre donne in mostra aprono degli squarci tramite cui farci vedere figure femminili impossibili nelle loro forme e collocazioni e azioni, eppure del tutto indiscutibili nella loro stessa esistenza. In “S” la giovane lattiginosa di Margherita Manzelli, con il suo corpo fragile e sproporzionato rispetto a ciò che (non) la circonda, ci osserva mentre ci interroghiamo su di lei, abbandonata in un angosciante (non) ambiente dove sembra stare, però, a suo agio; in Let Us Dive Till The Deep Sea Close Above Our Heads e It All Went Tits Up Amber Andrews gioca con i corpi nudi femminili – un piede diventa onda marina, i seni sono come montagne – e annulla la loro alterità rispetto al mondo che li circonda, passando il tutto al vaglio di una vivacissima lente cromatica; Wangechi Mutu, con il suo collage Untitled, fa ribellare una sorta di Potnia theròn contemporanea contro il suo alleato principe, il serpente, scardinando forze millenarie. E si passa, così, da un serpente vivo e subdolo ai piedi del cavallo del Profeta di Scipione a uno lacerato e sbaragliato nell’opera di un’artista che pone le proprie fondamenta in un discorso sociopolitico radicalmente femminista: due visioni-lampo di uno stesso soggetto.
Donna è anche la protagonista di Chess game versus Matthew Barney di Alessandro Fogo: i suoi occhi modiglianeschi le impediscono un’effettiva percezione sensoriale di chi e cosa – con forti venature di enigma e sospensione – le sta attorno, obbligandola piuttosto a “visionare” la realtà, e non a vederla, come scriveva Focillon. Lo sguardo è un nodo centrale anche nelle due opere di David Horváth. Dai piccoli occhi neri fissi su chi osserva in Self-portrait in heaven si passa a un ritratto senza titolo – tracciato a sanguigna sulla pagina giallastra di un blocco note – il cui soggetto, con un’espressione appagata, osserva qualcosa che non possiamo conoscere, ma solo immaginare. Ed è, allora, giusta, nella sua comodità, la scelta di appendere questo pezzo vicino a una delle due grandi portefinestre dello studio: forse la persona ritratta ha colto qualcosa nel prato di là dal vetro, qualcosa che a noi sfugge? Anche l’unica scultura in mostra, Untitled (Empiricist) di Charles Avery, dialoga con l’esterno, posta di fronte all’altra finestra con il suo balconcino. Empirista in mezzo a un gruppo di visionari, ha l’onere di riportarli con i piedi per terra, nell’hic et nunc della mostra.
Amber Andrews, Let us Dive Till The Deep Sea Closa Above Our Heads, 2022, courtesy Caccia Levi
Uscendo dallo studio ed entrando, invece, negli spazi di casa Casorati Emporium Projects, si trovano i video di quattro artisti, sempre selezionati dalla galleria Ciaccia Levi, facenti parte di “VISIONARIA”, anch’essa aperta fino al 12 novembre. Funziona il continuum tematico tra i due ambienti espositivi: le opere video indagano con coerenza la visionarietà in quanto ambiguità e alterità rispetto alle certezze del mondo fisico. In WHAT REMAINS BEFORE ANOTHER NIGHT BEGINS di Boris Cassanmagnago seguiamo – o meglio: dirigiamo, ma senza sapere dove stiamo andando – la corsa del protagonista immerso nel buio della notte. L’ambientazione notturna torna anche in 6001 Meters under the sea di Federico Montaresi, ma qui sono le luci urbane a farla da protagonista: la loro fragilità e l’imprevedibilità solo apparente delle loro intermittenze sono specchio di debolezze e paradigmi umani. In Seconda Vista di Alice Dicembrino un cubo di specchi, come una palla da discoteca sbagliata, spezza e moltiplica uno scenario naturale omogeneo: forse l’inaspettato è dietro l’angolo e non possiamo far altro che sperare di intravederlo da uno specchio. Con il loop di Amo Roma, scappo da Roma Lorenzo Silvestri mette in scena lo spensierato rincorrersi di un gruppo di amici: o forse è una fuga disperata dove qualcuno è irrimediabilmente destinato a crollare?
Estetica dei visionari, Casa Felice Casorati, Pavarolo (TO), fino al 12 novembre 2023
In copertina: Alessandro Fogo, Chess game versus Matthew Barney, 2022, olio su lino, Collezione Giuseppe Iannaccone, foto Paolo Vandrasch