“Etere Divino” di Giuseppe Genna e Andrea Gentile è un’opera perturbante, sinfonia del mondo contemporaneo e coscienza che si fa, testo che si crea, buio che si guarda.
«Questa prosa, scusate, indigna». Così Andrea Gentile e Giuseppe Genna scrivono alla fine di uno dei tanti capitoletti che compongono Etere Divino. Indigna perché la loro scrittura disarticola il linguaggio, elimina i nessi di consequenzialità, è potentemente evocativa, fitta di citazioni, non risponde alle linee della narrazione classica. È una scrittura non focalizzata, perché non si riesce a individuare un punto di vista, ce ne sono troppi, le voci che parlano si moltiplicano, le frasi si contraddicono: eliminato il narratore, il testo si fa da sé.
Non è possibile nessuna identificazione, e lo dicono gli stessi autori nell’Avvertenza finale, un piccolo manuale di istruzione e distruzione del testo.
È una scrittura che procede per accumulazioni, una moderna cosmogonia che cerca di abbracciare tutto l’universo attraverso l’elenco, ma questa spinta enciclopedica non riesce a organizzarsi. Secondo Lévi-Strauss il catalogo è la forma primaria dell’esperienza e infatti Etere Divino è anche il racconto della nascita di questo omonimo protagonista che si fa strada nel mondo. È una nascita traumatica che avviene al primo piano di via Luca Signorelli, ma assomiglia alla creazione del mondo.
Ma questa prosa indigna anche per quello che racconta (o meglio: non racconta): Etere Divino, poema cosmologico, favola metafisica, è anche una grottesca farsa del mondo contemporaneo, con «i lumaconi colorati fluo in centro», i designer, le mode, il «salone del buon gusto naturale e veg», il mercato metropolitano, l’odio per i salotti e per i diminutivi…Eppoi: l’uomo che non impara nulla dalla storia, l’uomo che pretende di essere amato solamente per il fatto di essere al mondo.
Il mondo di Etere Divino è fiele, solitudine, è una caduta:
Etere Divino cammina lungo la Statale 17 quando incontra un pozzo profondo. Vi guarda dentro e con il suo sguardo franco sembra chiedere che cosa sia questa vita che andiamo soffrendo: «Il viaggio di un zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso per montagne ertissime e luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili, alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, all’ardore del sole, cammina senza mai risposarti dì e notte uno spazio di molte giornate per arrivare a un cotal precipizio o un fosso, e quivi inevitabilmente decadere»,
Genna e Gentile si muovono come una coppia di speleologi dentro le profondità di questo fosso per cercar di far luce nell’oscurità, guardano il marcio con la lente di ingrandimento e scrutano la mente umana. Il risultato è una perturbante favola metafisica che rielabora – spesso con ironia – le cadenze della scrittura biblica e la tragedia greca, ricorda Carmelo Bene e passa al vaglio Dante. È metafisica nel senso che Genna dà a questa parola nel suo saggio Io sono. Studi, pratiche e terapia della coscienza. È la questione e la pratica della coscienza: «La questione della metafisica non è una questione, ma la stessa attività di consapevolezza che si esercita sul fatto coscienziale». La domanda cui la metafisica cerca di rispondere è «chi sono io?». La stessa domanda se la fa (e viene fatta a) Etere Divino, ma la risposta è continuamente frustrata. Etere Divino è in continuo movimento, in continua trasformazione e così è la realtà, continuamente trascesa e continuamente presente nei suoi dettagli, riorganizzati in un diverso spazio-tempo, non mimetico.
Per Antonio Damasio la nostra costruzione della realtà è il frutto del lavoro di costruzione del tempo e dello spazio da parte della coscienza. In Etere Divino queste due dimensioni sono ricostruite, inventate dalla forza immaginifica della scrittura; Etere Divino è un flâneur che attraversa questo mondo scomposto e discontinuo muovendosi come dei quanti, con un andamento discreto e discontinuo, facendo saltare il continuum della storia (e della Storia) che deflagra nell’ilare e nel tragico, nella cantilena del bambino, nella salmodia, nel mito e nella tragedia, nella farsa e nella satira, nel tg2, nella morte.
Altre dimensioni si immaginano dentro la testa di Etere Divino che, come la bambola di porcellana in copertina, si lacera il capo per farci entrare dentro, nella vastità dell’uomo (vasto, troppo vasto) e scoprirci dentro una strana Malaysia che somiglia alla Svizzera, un romanzo epistolare e un Prometeo incatenato.
La scrittura rende impossibile ogni forma di narrazione, procede per quadri, situazioni surreali.
Il lettore è assalito da immagini, parole altrui, testi altrui, ne esce confuso e disorientato. E allo stesso modo Etero Divino è bombardato da un eccesso di stimoli. Ma è proprio in questo territorio che si gioca la partita. Etere Divino è un testo contemporaneo nel senso di Agamben: «Può dirsi contemporaneo soltanto chi non si lascia accecare dalle luci del secolo e riesce a scorgere in esse la parte dell’ombra, la loro intima oscurità. […] Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo» (Che cos’è il contemporaneo?). Etere Divino attraversa in pieno il suo (il nostro) tempo e riesce a guardarlo dal cuore della tempesta, riesce a isolare il movimento e a osservarlo. Marco Mogurno, in una riflessione su Chefare, sostiene che si debba agire proprio in questo territorio mutevole dell’accelerazione del tempo presente, «in questa faglia nella quale le cose deflagrano e si ricompongono allo stesso tempo. E che oltre a osservare le cose si debba, utilizzando certamente le forme che più si ritengono vicine a se stessi o praticabili o necessarie, descrivere le crepe che attorno e dentro alle cose si formano». Etere Divino mi sembra che porti avanti proprio questo tipo di discorso. È la creazione e l’epopea di una coscienza che si trasforma e percepisce la propria esistenza; un’interrogazione su cosa sia questa esistenza, su chi sono io; soprattutto: chi sono io in questo tempo contemporaneo.
Etere Divino è un tassello di un grande discorso, non offre risposte semplici, ma drammatizza la ricerca, osserva con un occhio diverso le luci e le ombre e ce le mostra. È l’occhio che cerca di guardare nel buio dopo il big bang, prima che apparissero le stelle. E attraversa il buio fuori e il buio dentro, e lo porta sulla pagina. Non a caso nella mitologia Etere è figlio di Erebo (l’Oscurità). E per questo indigna perché «contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. […] Percepire questo buio non è una forma di inerzia o di passività, ma implica un’attività e un’abilità particolare, che, nel nostro caso, equivalgono a neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale, che non è, però, separabile da quelle luci» (Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?).
Immagine di copertina di Maria Rubinke