‘Eterno Femminile’ è un film messicano dedicato a Rosario Castellanos, donna di scrittura la cui vita, nonostante il tempo passato e il cammino delle donne, ancora ci interpella perché ancora molte sono le libertà che mancano all’appello
L’otto marzo non è un giorno come gli altri. Non c’è niente da fare. È come il 25 aprile o il 1° maggio, non si riesce a far finta di niente. Per quanto forte sia il fastidio per l’inevitabile girotondo del già detto e già enunciato, pronunciato e digerito, ci sarà sempre un aspetto, un dettaglio, un libro, un film di cui ci verrà voglia di parlare, perché ci verrà da pensare che ne vale la pena.
Per quanto mi riguarda, per questo otto marzo appena passato, vale la pena spendere qualche parola su un film messicano arrivato in questi giorni nelle sale italiane (poche sale in realtà, pochissime). Prima di tutto perché rischia di essere praticamente invisibile, un film fantasma di cui si ignora persino l’esistenza; in secondo luogo perché racconta la vita di un’autrice qui da noi del tutto sconosciuta.
Si intitola Eterno femminile il film che vi consiglio, è diretto da Natalia Beristain ed è un ritratto della poetessa e scrittrice messicana Rosario Castellanos. Una figura ignota, tutta da scoprire. Per quello che c’è di unico e irripetibile nella sua storia, ma soprattutto per quello che vi si intravede di universale. Perché il suo destino ancora ci interpella. E ci rappresenta. Nonostante i tanti passi avanti che le donne hanno nel frattempo compiuto in tutto il mondo. Perché Rosario Castellanos appartiene a un’altra epoca, ma la sua parabola non ci è affatto estranea.
Nata nel 1925, morta nel 1974, ad appena 49 anni, Rosario Castellanos (nel film con il volto di Karina Gidi) ha scritto tanto e con successo, dalla poesia al romanzo, ha ricevuto premi, insegnato all’università, difeso i diritti delle donne e degli indigeni. È nata in una situazione di oggettivo privilegio, in una famiglia di latifondisti del Chiapas, ma ha speso per tutta la vita il meglio delle sue energie per difendere i diritti di chi privilegi non ne possedeva, né per nascita né per censo.
Una figura leggendaria del femminismo sudamericano, che Natalia Beristain (classe 1981) descrive però nell’intimità della vita coniugale, con il marito Ricardo Guerra (interpretato da Daniel Giménez-Cacho), professore universitario e famoso intellettuale marxista, pronto a difendere i diritti di contadini e operai, e anche delle donne, certo, ma non quello di sua moglie di essere madre e continuare a pestare forsennatamente sui tasti della macchina da scrivere, costruendo castelli di parole e magnifiche ghirlande di senso, spazi di immaginazione e di libertà. E sentendosi trascurato, Ricardo non trova di meglio da fare che vendicarsi come avrebbe fatto qualunque reazionario in qualunque parte del mondo: tradendola con altre donne e mettendo in dubbio le sue doti di madre, fino al tentativo di sottrarle con la forza quel figlio diventato pura e semplice moneta di scambio e di ricatto.
Tanta acqua è passata da allora sotto i ponti, ma tante libertà ancora mancano all’appello. Pensando al Messico non possono non tornare in mente le spaventose statistiche di donne violentate e uccise a Ciudad Juárez , in una condizione di sostanziale impunità. Mentre appartiene all’attualità tutto il variegato scandalo di molestie e violenze fra Hollywood e Cinecittà, punta solo in apparenza glamour di un iceberg di ricatti e debolezze che condiziona la vita di tante, troppe donne in tutti i settori della società.
Ma il tema vero del film di Natalia Beristain non è tanto quello delle violenze sulle donne, quanto quello del cosiddetto “soffitto di cristallo”, quello che le illude, dando loro l’impressione che tutto sia davvero possibile: lavorare e far carriera, scrivere, sognare e avere successo, magari diventare presidente degli USA o semplicemente continuare a scrivere ed essere madre, senza doversi sentire in colpa, senza essere costrette a scegliere. Sembra facile, sembra che niente ormai ostacoli l’inarrestabile cammino del genere femminile, ma il soffitto anche se non lo vedi, perché è trasparente, continua a essere lì. E tante, troppe donne, ogni giorno si ritrovano a scoprirlo, a loro spese.
Il titolo originale del film è Los adioses (gli addii), ed è preso da una delle poesie di Rosario Castellanos:
Volevamo imparare l’addio
e abbiamo rotto l’alleanza
che ci univa come amici.
E abbiamo alzato la distanza
tra le amicizie divise.
Per imparare a partire, abbiamo camminato.
Abbiamo lasciato dietro di noi le colline, le valli,
i prati verdi.
Abbiamo osservato la loro bellezza
ma noi siamo rimasti.
Per il titolo italiano la scelta è invece caduta su un’immagine di femminilità immutabile nella sua essenza, quella di cui parlava Goethe nel Faust, coniando un’espressione destinata a grande fortuna: l’eterno femminino. «Tutto ciò che passa non è che un simbolo, l’imperfetto qui si completa, l’ineffabile è qui realtà, l’eterno femminino ci attira in alto accanto a sé», scriveva Goethe, enfatizzando la “potenza” della donna che attira al cielo e conduce l’uomo fuori della dimensione del tempo. La redenzione di Faust passava attraverso le qualità eterne e necessarie di una donna, Margherita.
Allora come oggi viene da chiedersi: e la redenzione delle donne, invece, da che cosa passa?