Sesto appuntamento con la rubrica “Scoprendo Milano”: ogni mese, la storia di un luogo, della sua evoluzione architettonica, del suo ruolo nelle trasformazioni della città. Nell’area industriale dell’ex Ansaldo sorgono ora lo SpazioBASE, il Mudec, i laboratori della Scala… un luogo chiave per provare a capire le trasformazioni di Milano negli ultimi trent’anni.
Riva Calzoni, General Electric, Osram, Magneti Marelli: questi i nomi di alcune delle storiche aziende che, stabilendosi nella città di Milano, incisero non solo sulla storia dell’industrializzazione milanese, ma anche sullo sviluppo urbano del capoluogo lombardo.
La realizzazione di imponenti strutture produttive influenzò notevolmente la conformazione di numerosi quartieri, che avrebbero mantenuto nel tempo un carattere prettamente industriale. Quest’ultimo fu messo in discussione quando, a partire dagli Anni ’80, la progressiva deindustrializzazione impose l’urgente questione delle strategie da intraprendere per il recupero delle aree dismesse.
Emblematica è la vicenda dello storico stabilimento elettromeccanico dell’Ansaldo, in via Bergognone, i cui imponenti edifici furono sia protagonisti dell’era industriale della prima metà del Novecento che testimoni diretti della sua riconversione terziaria a partire dagli Anni Duemila.
Nonostante la denominazione dell’edificio sia indissolubilmente legata alle officine Ansaldo, il maestoso complesso fu acquistato dalla ditta genovese solo negli Anni Sessanta. La storia dello stabilimento risale infatti al 1904 con l’insediamento dell’impresa automobilistica di Roberto Züst.
Già nel 1908 le officine vennero acquistate dall’AEG, per poi passare nel 1915 alla Società Elettrotecnica Galileo Ferraris e nel 1918 alla Franco Tosi. Nel 1921 il complesso fu poi acquistato dalla CGE-Compagnia Generale di Elettricità, divisione italiana della statunitense General Electric, per poi confluire nel gruppo Finmeccanica-Ansaldo, produttore di locomotive e carrozze ferroviarie e tramviarie.
Fino all’inizio degli Anni Ottanta le imponenti officine, insieme agli altri stabilimenti collocati oltre la cintura ferroviaria di Porta Genova, proseguirono la loro fervente attività; la presenza di tali eccezionali strutture andò a definire il carattere umano e architettonico del quartiere, il cui panorama di officine, magazzini e capannoni pullulava di artigiani e operai.
Tale scenario iniziò a mutare con il progressivo smantellamento delle aree industriali, Ansaldo compreso, che venne definitivamente chiuso nel 1986 e dopo tre anni acquistato dal Comune con il vincolo di utilizzo a servizi culturali.
A prima vista un simile cambiamento di destinazione può sorprendere, ma in realtà si colloca nel solco di una comune tendenza nel dibattito legato al riuso di grandi stabilimenti produttivi: la solida e spesso imponente ossatura strutturale di tali edifici si presta infatti ai più liberi rimaneggiamenti, a cui giovano i generosi spazi che simili volumi mettono a disposizione.
La versatilità delle officine Ansaldo venne già testata nel 1985, quando nell’edificio 36 fu collocata la spettacolare arca lignea realizzata da Renzo Piano, un sofisticato dispositivo acustico e scenico in cui fu messo in scena il Prometeo di Luigi Nono.
A partire dagli anni Novanta venne intrapresa una strategia di occupazione a tappe dell’area Ansaldo, allo scopo di preservare lo stabilimento dal degrado. Risale a questo periodo l’assegnazione di sette officine al Teatro alla Scala, che vi collocò i suoi laboratori, precedentemente sparsi in diverse sedi.
Nel frattempo venne indetto un concorso di progettazione volto alla realizzazione di una nuova cittadella della cultura: una parte dell’area Ansaldo avrebbe ospitato un nuovo museo archeologico, un centro delle culture extraeuropee, il Centro studi sulle arti visive (Casva), la Scuola di cinema, televisione e nuovi media e il laboratorio di marionette di tradizione F.lli Colla, in parte ristrutturando alcuni edifici esistenti e in parte realizzando nuovi volumi.
L’obbiettivo dell’operazione era finalizzato non solo a dare degna collocazione a risorse e collezioni pubbliche, ma anche a innescare potenziali scambi tra le diverse istituzioni, giovando della vicinanza e dell’accessibilità di risorse, documenti e reperti; tale sodalizio doveva trovare una forma architettonica adeguata alle aspettative e alla conformazione degli edifici preesistenti.
Il vincitore fu l’architetto inglese David Chipperfield insieme allo studio milanese P+arch, il cui progetto fu in grado di risolvere al meglio “il rapporto tra nuovo e vecchio, senza dissonanze, ricercando propri valori in un non facile contesto.”
Il progetto verte sull’alleggerimento della densa cortina edilizia che si affaccia su via Tortona tramite la definizione di una piazza interna, su cui si affacciano volumi squadrati, interamente rivestiti in zinco-titanio, in richiamo al passato industriale delle officine. Tali volumi sono coronati da una grande lanterna opalescente di forma organica che porta luce alla generosa zona di accesso alle aree espositive, organizzate in cluster di spazi rettangolari comunicanti che permettono flessibilità nell’allestimento.
Nonostante il concorso risalga al 2000, i lavori presero avvio solo nel 2008; nel frattempo il quartiere stava vivendo un notevole cambiamento, sia nell’architettura che nei suoi abitanti. Nella zona infatti si stava andando a delineare sempre più chiaramente la transizione da quartiere prettamente industriale e artigiano a nuovo polo terziario, con la progressiva colonizzazione di fabbriche e capannoni dismessi da parte di designer, artisti e galleristi.
Tale colonizzazione coinvolse anche parte degli spazi ancora liberi dell’ex Ansaldo, dove si insediò il progetto OCA-Officine Creative Ansaldo, un laboratorio urbano aperto ad associazioni, reti e movimenti di cittadini, a cui recentemente è subentrato lo spazioBASE, nuovo polo culturale creativo.
Nel frattempo la futura cittadella delle culture, tra ritardi e modifiche al progetto, subì nel 2012 una parziale correzione di destinazione per iniziativa di Stefano Boeri, allora assessore alla Cultura: il progetto viene infatti rinominato “Museo delle Culture” (Mudec), incentrato non più sull’esposizione permanente di collezioni etnografiche bensì su mostre ed eventi finalizzati a “raccontare le culture del mondo in rapporto al contemporaneo.”
Tale cambiamento non comportò modifiche al progetto, prossimo al completamento, ma si limitò a intervenire sulla logistica degli spazi. Il Mudec venne inaugurato nel 2015, a ridosso di Expo, tra le polemiche che videro fronteggiarsi il Comune di Milano e l’architetto David Chipperfield: quest’ultimo, estenuato da anni di ritardi e di problemi economici che causarono grossi cambiamenti al progetto in fase esecutiva, arrivò a disconoscere l’opera dopo la constatazione della scarsa qualità di realizzazione di alcune finiture.
Solo nel giugno di quest’anno le due parti si sono riappacificate, con la liquidazione dell’architetto e l’affissione di un cartello all’entrata del Mudec che indica Chipperfield come autore del progetto nonostante gli “scostamenti di impatto estetico rispetto all’idea iniziale”.
Al di là delle vicende travagliate che hanno caratterizzato la complessa riconversione dell’area Ansaldo, tale processo mostra le incredibili potenzialità delle strutture produttive dismesse che costellano il panorama urbano lombardo e italiano. Capannoni e officine, oggi abbandonate, presentano un notevole potenziale per futuri progetti; pertanto quell’architettura industriale che ha così profondamente condizionato la città di Milano può continuare a influire sulla scena urbana grazie ad oculati progetti che sappiano valorizzare questi malleabili giganti di acciaio e cemento.
Fonti iconografiche:
http://casabellaweb.eu/2015/04/02/mudec-e-chipperfield/
https://www.archdaily.com/617947/museum-of-cultures-completes-in-milan