Expo, un anno dopo

In Arte

La mostra diffusa Expound prova, tra memoria e nostalgia, a raccontare l’Expo che è stato. Diversi linguaggi e approcci per fare i conti con l’eredità di un evento che, nel bene o nel male, ha occupato per mesi il dibattito pubblico, e non solo.

È trascorso un anno da Expo, ma non abbiamo ancora smesso di parlarne. Dalle sue ceneri continua a nascere qualcosa di nuovo, che ne porta le radici nel nome e, senza nostalgia, vuole costruire partendo dai ricordi. Come Expound, la mostra, inaugurata lo scorso sabato, che fino al 22 di maggio animerà i dintorni della Galleria Expowall di via Curtarone a Milano, nell’ambito del Photo Festival e di Expo in Città, nata dall’incontro dei fotografi e dei curatori che hanno lavorato attorno all’evento per eccellenza del 2015, secondo diversi linguaggi e interpretazioni.

Un filone del racconto è fotografico: le immagini cominciano nell’hub di Expowall e diventano “itineranti”, trovando il loro luogo nelle strade, nei cortili, negli esercizi commerciali della zona, da via della Commenda a via Orti, per intercettare non solo gli appassionati, ma anche i residenti e i semplici passanti. Si passa dalle installazioni partecipate di People of Expo, ideata da Valentina Di Francesco e Stefano Frattini, in via Orti 14, al racconto del Recupero Verde Expo, in via della Commenda 33, con le fotografie di Elena Galimberti. Marco Menghi e Matteo Cirenei ci offrono, al ristorante Lacerba, il secondo capitolo di The Stately Side of Expo in cui si ripercorre lo smontaggio dei padiglioni e dei luoghi abitati e vissuti durante i sei mesi della fiera. Con un tuffo al passato, ci riporta alla fase di costruzione Building Expo, il progetto fotografico di Thomas Pagani, curato da Roberta Levi. Uno sguardo alla città durante, ma fuori da Expo, nelle fotografie di Lorenzo Ceva Valla e uno invece all’interno dell’esposizione universale in quelle di Gianluca Giordano.

The stately side of Expo. Marco Cirenei, Childrenpark
The stately side of Expo. Matteo Cirenei, Childrenpark

In viale Monte Nero, al civico 15, ha trovato casa, in formato video, Defining Expo 2015, un brillante dizionario visivo in 140 parole di Expo, dalla A di ability alla Z di zootechnics, seguendo i temi principali quali food, planet, energy e life, ma andando molto oltre, secondo stili e linguaggi diversi. A queste definizioni per immagini hanno contribuito fotografi, illustratori, grafici, pittori e narratori internazionali, il cui lavoro è stato curato dalla photo editor Laura Davì e dal fotografo Pietro Baroni e sviluppato insieme  al duo We Are Müesli (Claudia Molinari e Matteo Pozzi). «Nella mia testa – racconta Laura – c’erano i dizionari naturalistici illustrati del ‘700 e dell’800, con le raffigurazioni di fiori, piante, animali e conchiglie di ogni tipo. Mi hanno sempre molto affascinata». Le 140 parole sono state selezionate dalla comunicazione ufficiale di Expo, prima dell’apertura di maggio 2015. «L’idea – continua Laura – era quella di lasciare che ogni artista scegliesse il proprio vocabolo preferito e attraverso la sua creatività illustrasse uno tra temi estremamente diversi e molto profondi, anche quelli più dimenticati, nascosti dietro le file chilometriche e i gadget».

Defining Expo 2015: We Are Müesli, "Food Production"; Dana Taha, "Pasta"
Defining Expo 2015: We Are Müesli, “Food Production”; Dana Taha, “Pasta”

Tra i tanti progetti in mostra con Expound, quello di Luca Rotondo, vincitore quest’anno del Premio Ponchielli, che ha fotografato I 400 volti, una raccolta delle tante culture e dei tratti tipici dei diversi Stati che hanno partecipato a Expo. Li trovate esposti, fino al 22 maggio, in via Orti 14. Noi lo abbiamo intervistato per farci raccontare qualcosa di più.
Luca, come ti sei avvicinato a Expo?

Un anno prima dell’evento, nel 2014, mi sono “consorziato” con un gruppo di colleghi, tra fotografi di architettura e food photographers, video operatori, dronisti, con cui ho creato il team p4e, photographers4expo: il nostro intento era intercettare alcune delle molteplici richieste che abbiamo ipotizzato sarebbero arrivate durante Expo. Abbiamo preso l’incarico del padiglione russo e di quello americano per coprire svariate necessità nel corso dei sei mesi. Io, inoltre, avevo ricevuto da Interni il mandato ufficioso di produrre materiale fotografico per il numero di luglio-agosto dedicato a Expo. Così, con una lettera di incarico, ho potuto avere il pass che attraverso i contatti con l’ufficio stampa di Expo sono riuscito a far diventare permanente.

Come e perché è nato il progetto dei 400 ritratti?

Volevo dare vita a un racconto che uscisse dalle solite tematiche della manifestazione, food, sostenibilità, e così via, ma che al contempo ne ritraesse la vera conseguenza, ovvero la grande commistione culturale che per sei mesi si è radunata a Rho Fiera. L’idea era di effettuare una sorta di viaggio etnografico tra le differenti culture regionali provinciali degli stati partecipanti. Ho presentato l’idea all’ufficio comunicazione Expo per chiedere il pass permanente per seguire il progetto, e così è stato.

©Luca Rotondo, I 400 volti: il soldato Ryan della Marina Militare indonesiana.
©Luca Rotondo, I 400 volti: il soldato Ryan della Marina Militare indonesiana.

Come si è svolto il tuo lavoro?

Ho passato l’estate, con il suo caldo bestiale, ad andare in giro per prendere contatti con gli uffici stampa o direttamente con i soggetti e scattando secondo delle linee guida molto precise. Evitare, per quanto possibile, le ombre, ricercando luci morbide. La priorità nella scelta dell’inquadratura e del punto di vista mi veniva data dalla struttura del padiglione e dall’esaltazione delle sue forme, all’interno delle quali andavo poi ad inserire le varie figure umane. Ho ritratto gli abiti tipici della tradizione regionale italiana all’interno delle quattro statue all’incrocio tra cardo e decumano. Ho cercato di cogliere i soggetti nei paraggi del loro padiglione di appartenenza e poi mi sono dato alcuni punti fissi per quanto riguardava la loro postura e il loro sguardo.

Qual è stata la cosa più difficile di questo progetto?

Prendere i contatti con quei Paesi non molto propensi ad agevolare il mio lavoro. In alcuni padiglioni occorreva necessariamente essere spalleggiato da qualcuno dell’ufficio stampa, che mi seguiva passo passo e fungeva da traduttore, come nel caso del Giappone. In altri casi, invece, è bastato approcciare la persona in abito, spiegare il progetto in inglese, francese o come si riusciva, e poi allontanarsi un attimo per scattare.

Altre volte ancora, per calendarizzare le giornate in costume, dovevo passare attraverso gli uffici stampa, che non avevano però mai un calendario che andasse oltre le 48 ore. Expo era una manifestazione in continuo divenire, i programmi cambiavano in continuazione, gli eventi venivano creati e ideati all’ultimo momento. Basta pensare alla Francia, che ha festeggiato per due volte il National Day, mentre altri Paesi hanno festeggiato nelle date sbagliate.

©Luca Rotondo, I 400 volti: un musicista del kirghizistan
©Luca Rotondo, I 400 volti: un musicista del kirghizistan

Qual è stata la cosa più divertente?

Ascoltare le storie delle persone che fotografavo e di quanti in quei mesi ho incontrato e conosciuto. Da chi si lamentava dell’organizzazione della manifestazione a chi raccontava, come ha fatto un musicista iraniano, dei suoi tour in giro per l’Iran e nelle televisioni egiziane. Una volta mi trovavo al padiglione della Repubblica Ceca per fotografare dei suonatori/ballerini che avevano esibizioni a ritmo serratissimo da eseguire prima di poter essere a disposizione. Era estate e faceva molto caldo. La ragazza dell’ufficio stampa, per scusarsi della lunga attesa, continuava a portarmi birre gelide. È finita che ero un po’ ciucco e il caldo era diventato insopportabile…

 

Immagine di copertina: The stately side of Expo. Matteo Cirenei, Auditorium, Area di servizio.

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