Ezio Sinigaglia inventa una personaggio che non sfigurerebbe nella galleria umana del Decameron, e lo fa con una lingua che mette alla prova l’idea stessa di arcaicità. In un gioco di specchi e ribaltamenti, la freccia d’amore che Mastro Landone scocca all’insaputa del suo apprendista finirà per rivolgerglisi contro: una parabola sul vero, il presumibile e l’occulto condotta magistralmente con un italiano da fuochi artificiali. Nel nome del rovesciamento.
Gli echi decameroniani che si avvertono nel nuovo romanzo di Ezio Sinigaglia, L’imitazion del vero (TerraRossa edizioni), acquistano un significato rinnovato se si pensa al 2020. La storia di Mastro Landone e del suo apprendista Nerino potrebbe essere, infatti, una candidata plausibile per la rosa di novelle che nel libro di Boccaccio tengono compagnia ai giovani in fuga dalla peste di Firenze: come quei racconti, L’imitazion del vero costituisce una pausa, seppur breve, che può alleviare i pensieri e le preoccupazioni dei tempi recenti.
Or stava dunque una mattina al suo lavoro l’inventore intento, quando nell’uscio della bottega prese alcuno gagliardamente a bussare. Talché, sospirando e le lunghe dita in una cocca del grembiule nettandosi, andò Mastro Landone ad aprire: e, sulla soglia, impietrito rimase, come colui che la folgore subitamente trapassa. S’era essa folgore, nel precipitar ch’aveva fatto dal cielo, nelle membra d’un fanciullo incarnata, donde giammai non aveva Mastro Landone veduta la bellezza eguale. E stava quel fanciullo-folgore ritto in sull’uscio dischiuso, sì che della folgorazione sua l’effetto si perpetuava. Era colui un giovinetto, nero d’occhi e di pelo com’un saraceno, e di riso invece bianchissimo, talché, nel contrasto, più bianca ancora la parte bianca appariva, e più nera la nera. E ciò non pertanto non si facevan quei due contrarii colori dentro il corpo del fanciullo guerra nessuna ma, siccome è virtù della Natura nelle sue prove meglio perfette, la luce dei denti coll’ombra degli occhi mirabilmente si fondeva in un amoroso abbraccio donde l’incanto della pelle nasceva.
Mastro Landone, un inventore della città di Lopezia, rimane vittima di quello che può essere considerato l’inganno per antonomasia: l’innamoramento. La sua quotidianità viene d’improvviso scombussolata dalla comparsa di un giovane, Nerino, che piomba nel suo laboratorio chiedendogli di diventare il suo apprendista. Si susseguono le classiche fasi dell’innamoramento: la vista dell’altro, l’ossessione derivante dalla mancanza e dall’assenza, il desiderio di possesso e, infine, il congiungimento/accoppiamento.
Quella che d’impatto può sembrare una storia semplice viene elevata da Sinigaglia con una scelta singolare: la lingua con cui vengono raccontate le pene amorose e i sollazzi e le pulsioni sessuali dei personaggi è un italiano dal sapore antico che, con una serie di artifici linguistici arcaizzanti, permette al lettore di immergersi totalmente in quello che sembra un tempo che fu.
Ma già veniva Mastro Landone in sui suoi passi laudi cantando all’obliato arnese che di veder Nerino una volta più dell’usato la potestà quel giorno gli offriva e, nel venire, già nel pensier si dipingeva il fanciullo ad alcuna cosa nell’ora del riposo intento: era forse nel sonno soavemente caduto, sì che potuto avrebbe Mastro Landone senza pudor sedersi a rimirarlo, e di passar le dita sul fulgor della pelle, fra l’orecchio ed il collo, trovato avrebbe nell’ombra e nel silenzio virtù; o forse lieto in alcun fanciullesco trastullo stava allora Nerino, o forse nel tedio assiso e, chissà, nell’apparir del padrone, d’allegrezza si sarebbe il suo volto nella sorpresa illuminato; o forse della madre lontana sentiva in quell’ora il gaio Nerino acerbamente l’assenza, e mesto languiva in un cantuccio dove, a confortarlo accorso, l’avrebbe Mastro Landone lungamente fra le lacrime cullato.
La copertina mostra un elemento che costituisce il primo veicolo visivo e il primo approccio alla storia di Mastro Landone: una carta da gioco trova infatti il suo spazio disegnato, quasi a voler rendere immediata la sensazione dell’inganno, del sollazzo, della doppia realtà che costituisce il sostrato dell’intera storia. Sulla carta da gioco si possono distinguere, infatti, le fattezze dei due protagonisti del romanzo: Mastro Landone, sulla cui testa campeggia un cuore rosso, e Nerino, capovolto, con una picca nera a lato della testa. L’amore che si specchia nell’inganno e l’inganno che, capovolto, costituisce l’altra sua faccia.
Mastro Landone conosce bene il rischio di rendere concreti i suoi desideri di possesso, a Lopezia infatti la sodomia è un reato grave che viene punito con severità. Ma egli sa che non può non assecondare la sua natura e costruisce, quindi, un marchingegno che gli permetterebbe di toccare, non visto, le membra giovani del suo ignaro apprendista e di dare così sfogo al desiderio che pulsa prepotentemente nelle sue vene. Con l’inganno Nerino viene attirato nei godimenti che quel marchingegno gli regala e subito si abbandona a quell’imitazion del vero. Non potendo vedere il responsabile di quelle carezze e di quei baci che così tanto lo avvinghiano e lo incastrano, egli si trova infine a provare amore nei confronti di quella macchina.
Quello che quindi dovrebbe essere il sentimento che un uomo deve, necessariamente, nella città di Lopezia provare solo ed esclusivamente per una donna, non solo viene provato da un uomo per un altro uomo, ma anche da un uomo per una macchina. Ogni significato viene stravolto, in questa storia, per lasciare alla semplicità dell’azione una necessaria e inevitabile semplicità della vita.
«L’equilibrio della bilancia – si diceva Nerino mentre la via ripigliava – s’è volto questa notte interamente a mio vantaggio. Poiché in questo soltanto la relazion fra le parti è mutata, che, mentre sapeva fino ad ora Mastro Landone alcuna cosa ch’io non sapevo, or so io alcuna cosa che Mastro Landone non sa. E quindi, s’egli era fino ad ora il mio padrone anche dentro di quella botte, ora, in quella botte almeno, io sono il padrone suo. Certo io potrei fare ogni cosa. Potrei convocare i birri nell’officina e mostrar loro come Mastro Landone si prenda diletto di me coll’inganno, ed essi lo metterebbero ai ferri e gli mozzerebber gl’orecchi ed alla gogna per sette dì e sette notti lo terrebbero esposto: e lo avrei così io castigato, non pel dolore e la vergogna, ma pel piacere ch’egli m’ha dato»
Il carnefice che diventa vittima. Le due metà degli uomini in copertina si specchiano, quasi come se vivessero in due realtà diverse, come se quello che risulta essere il vero sia solo determinato da uno degli innumerevoli punti di vista. Con la scoperta da parte di Nerino dell’inganno del maestro, le due dimensioni personali dei protagonisti si sovrappongono: quella di Nerino che escogita la sua vendetta e contemporaneamente finge di assecondare gli affetti del maestro, e quella di Mastro Landone che, ancora innamorato, sembra non saziarsi mai del godimento che regala al suo apprendista.
Sinigaglia utilizza le sue parole per descrivere la legittimità dell’esistenza di ogni tipo di sensazione, di emozione, di amore che senza limiti né divieti troverebbero il modo di essere espressi senza inganni, senza imitazioni, ma nel vero relativo che è la nostra, singolare, realtà. Perché quel “vero” del titolo è un vero non oggettivo, ma sempre relativo, e come tale un concetto che, relazionato a quell’“imitazion” annulla e si annulla, perché se il vero viene messo in dubbio, cos’è che nella storia viene imitato?