Riavvolgiamo il film della vita del grande artista, centro di gravità permanente della musica italiana, che nell’avvincente autobiografia “Nove vite e dieci blues” si è deciso a mettere nero su bianco oltre 60 anni di memorie (come compositore, musicista, scrittore, produttore e compagno di strada) che aveva rischiato di perdere
Adesso che gli hanno conferito l’Ambrogino d’oro della città di Milano che dalla giovinezza è casa sua, per Mauro Pagani comincia, se già non è cominciata, la decima vita. Le altre, le precedenti, le ha raccontate in Nove vite e dieci blues (Bompiani), la sua autobiografia fresca di stampa, una delle più convincenti e avvincenti tra le autobiografie licenziate da un musicista. Perché è buona la materia e ottimo chi la racconta.
Memorie scritte, racconta lui, per recuperare la memoria che tre anni fa se n’era andata di botto, ciao ciao. «Una sera di gennaio del 2020, tornando a casa dopo una giornata in studio, mi accorsi che il mio campo visivo mi inviava segnali preoccupanti. Qualche ora più tardi, per fortuna già in ospedale, la situazione precipitò. Quando giorni dopo cominciai a riprendere coscienza di me, mi resi conto che la percezione del passato, del presente e di tutto ciò che mi circondava era profondamente cambiata: su ogni cosa, su ogni sensazione aleggiava una strana e sconosciuta fatica a capire, a riconoscere, soprattutto a ricordare.
Nomi, facce, episodi: tutto scollegato, senza ordine, senza identità e soprattutto senza senso. Cominciò così un lungo periodo di riflessione e di riabilitazione, per fortuna con buoni risultati». I risultati sono la storia di una vita nel segno, e dentro ci vedi tutta la sua tenacia lombarda, di recuperare tutto quel che vale la pena di essere raccontato. E allora riavvolgiamolo questo film che è la vita di un grande artista – l’ho già scritto, mi ripeto: di un centro di gravità permanente della musica italiana – e proviamo a seguire il filo dei suoi ricordi ritrovati.
Mauro Pagani nasce a Chiari, nella pianura bresciana a pochi chilometri dalla Franciacorta, a un quarto a mezzanotte del 5 febbraio 1946, figlio di una casalinga e del proprietario di una piccola officina meccanica – Officine Meccaniche è il nome, molti anni dopo, del suo celebre studio di registrazione – che rievocherà nella bellissima La neve de Natale che vi consiglio di ascoltare se già non la conoscete (“Ga sarà anche la me mama/ biondina a sedesani/ ga sarà il mio babo/ bafi e divisa blu”). Una madre ironica che, quando lui le chiede se è stato concepito il 25 aprile del ‘45, risponde: troppa confusione in quel giorno, più facile che sia stato il 26 o il 27. Un padre rigido, ex sergente pilota di idrovolanti, che gli trasmette l’amore per la musica ma lo manda in collegio quando il parroco lo mette in guardia: con quel temperamento, il ragazzo può diventare un santo o un grande delinquente.
Già, perché in quel 5 febbraio 1946 Pagani giura che sono nati in due, troppi cinque chili e sei per un neonato solo. Dunque lui e il Fuggiasco, lui quello che sgobba e prova a tenere insieme tutto, il Fuggiasco quello che mette tutto in discussione e si ribella. Mauro è la somma dei due: della concretezza e delle fughe in avanti. Adolescente blandamente ribelle (si fa espellere due volte da quei collegi di preti: una volta perché dice a un insegnante che non ama quel dio così indifferente di fronte alla sofferenza e all’ingiustizia, una seconda perché mette un gorilla impagliato nella branda del rettore) ma con una maturità classica fra le prime cento d’Italia, studente di violino e di teoria musicale già a tredici anni, militante nei gruppi beat e rock dell’area bresciana negli anni ‘60 della sua formazione, musicista nei night tra malavitosi e belle sgualcite, fino all’incontro nel 1970 con I Quelli, che hanno scalato le classifiche con La bambolina che fa no e, insofferenti a quella dieta musicale fatta soprattutto di versioni italiane più o meno infedeli dei successi stranieri – le chiamano cover – si accingono a cambiare pelle.
Il nome alla formazione che sta nascendo lo trova lui quando racconta ai nuovi amici – Flavio Premoli, Franco Mussida, Franz Di Cioccio, Giorgio Piazza – che anni prima, a Chiari, suonava in un gruppo in cui l’unico maggiorenne era il batterista, Chicco Marconi, figlio della proprietaria di una panetteria. Marconi aveva firmato le cambiali per l’acquisto degli strumenti e sua madre veniva ogni giorno nello scantinato dove provavano per bussare a cassa. Uno di loro aveva proposto che pagasse lei le cambiali: in cambio si sarebbero chiamati Forneria Marconi e avrebbero fatto pubblicità al suo negozio. La donna li aveva fulminati con lo sguardo ma adesso i nuovi amici, dopo molte risate, accettano quel vecchio nome. “Premiata” lo aggiunge il produttore Alessandro Colombini della Numero Uno, l’etichetta discografica di Mogol e Battisti che li ha messi sotto contratto.
Così, con quel nome lungo, difficile da ricordare ma impossibile da dimenticare, la Pfm esordisce nel 1971 con un 45 giri (La carrozza di Hans e Impressioni di settembre, decimo in classifica) e con un album, Storia di un minuto, che esordisce schizzando immediatamente al primo posto. Pagani ha 25 anni, suona il violino e fa, come dice lui, la “zoccola da palco”. E di quelle canzoni ha scritto tutti i testi, andando per Impressioni a ripetizione da Mogol. Rockstar recalcitrante, Mauro resta in formazione fino al 1977. Sono gli anni dei successi italiani, delle tournée faticose ma trionfali in Inghilterra (incidono per la Manticore, l’etichetta creata da Emerson Lake & Palmer), in Giappone e negli Stati Uniti, dove nel 1976 li azzoppa una porcheria montata ad arte dal settimanale Variety. La Pfm ha preso parte, qualche mese prima, a un concerto romano di solidarietà con i palestinesi. La parola d’ordine è: “due popoli, due stati”, ma Variety sostiene che gli incassi dei loro concerti servano per comprare le armi con cui l’Olp distruggerà Israele, e sull’onda della polemica le porte per loro si chiudono.
È la classica goccia, ma Pagani è scontento da tempo: non gli piace questa routine di mesi lontano da casa, a suonare ogni giorno in un posto diverso, e dopo ogni concerto sempre gli stessi voli, gli stessi alberghi, le stesse auto della Hertz. Una sera, a Des Moines, dà fuori di matto e sta per buttare dalla finestra la tv che trasmette la serie western del giorno prima. Insomma, è stufo e decide di scendere. Nessun litigio con gli altri, che infatti spesso interverranno nei suoi album solisti, soltanto la voglia di essere libero e di dedicarsi alle sonorità che da qualche tempo lo appassionano e che studia: le voci e gli strumenti del Mediterraneo, la musica etnica che comincia a suonare e promuovere con una buona dozzina d’anni d’anticipo rispetto a Peter Gabriel.
Sono di allora il primo album solista (Mauro Pagani, 1978: glielo pubblica Caterina Caselli e dentro c’è già, in nuce, tutto Creuza de mà) e il meraviglioso esperimento dei Carnascialia, un unico album del 1979 ma di quelli che non si dimenticano, un ensemble aperto con il Canzoniere del Lazio, jazzisti che lasceranno il segno (Maurizio Giammarco, Danilo Rea) e l’immenso Demetrio Stratos con cui Pagani collabora anche a una Rock and roll exhibition. Insieme dovrebbero creare una band nuova di zecca, ma la morte per leucemia del cantante degli Area fa archiviare dolorosamente il progetto. Intanto Pagani è attivo su molti fronti: suona nei concerti di Roberto Vecchioni, inaugura una collaborazione che si rivelerà lunga e fruttuosa con Gabriele Salvatores.
Con Fabrizio De André (foto Reinhold Kohl)
E nel 1981 al Castello di Carimate, mentre sta registrando la colonna sonora del Sogno di una notte d’estate (lo spettacolo teatrale, quella del film la inciderà nel 1984) incontra Fabrizio De Andrè che in un altro studio lavora all’album che diventerà noto come L’indiano. Legano subito, i due, e Faber ingaggia subito Mauro nella sua band che deve portare in tour il nuovo disco e i vecchi successi. «Ho sempre avuto il sospetto che fosse perché suonavo tanti strumenti e a lui, da buon genovese, l’idea di risparmiare non dispiaceva affatto». Già, perché oltre al volino Pagani suona il flauto, il bouzouki, il synth, l’armonica e una quantità impressionante di strumenti a corda.
Mauro gli fa ascoltare le musiche mediterranee che ha scoperto, oud turchi e saz, shanai e gaide macedoni. E De André se ne innamora, al punto da volerci costruire un album. All’inizio dovrebbe essere in un grammelot mediterraneo, poi Faber propone il genovese «che ha mille parole prese dall’arabo» e si mettono al lavoro. Pagani scrive le musiche, Faber i testi, l’impresa è azzardata ma Creuza de mà, pubblicato nel 1984, è un successo stellare. Una rivoluzione e una rivelazione al tempo stesso, che David Byrne definirà uno dei dischi più belli e influenti sulla scena mondiale degli anni ‘80. Nessuno, primi fra tutti i discografici, ci avrebbe scommesso. «Quando lo facemmo ascoltare a Guido Rignano, l’amministratore delegato della Ricordi, ci fece i complimenti, poi mi prese in disparte e aggiunse: “Speriamo di piazzarne qualche decina di copie a Genova”». Ancora meglio andrà, nel 1990, a Le nuvole, che arriverà a vendere quasi un milione di copie. Di quell’album, che avrebbe dovuto essere firmato con i loro due nomi in copertina, Pagani è coautore a tutti gli effetti, firma le musiche e ha l’emozione di scrivere, assieme a Faber, anche il testo di La domenica delle salme, un’istantanea visionaria e agghiacciante del dopo-Muro, con il neoliberismo che spicca il volo. L’anno dopo, il 1991, Faber accetterà di intervenire nel nuovo disco solista di Pagani, Passa la bellezza, duettando con lui in Davvero davvero.
Poi la separazione consensuale. «Eravamo rimasti insieme per quattordici anni e non ci siamo mai persi di vista. Stavo scrivendo per lui e avrei dovuto tornare a suonare in tour con lui, quando la sua morte mise fine a tutto. Faber mi manca. Non ho mai trovato una persona così profonda, così ricca interiormente e così fragile. Un principe libero».
Intanto Pagani è pronto per le nuove vite, che nel corso degli anni a venire si intrecceranno. Autore in proprio (una sua canzone, la splendida Domani del 2003, è scelta nel 2009 da 56 artisti italiani per una versione corale che raccoglie un milione di euro da destinare alla ricostruzione del Conservatorio e del Teatro Stabile dell’Aquila devastati dal terremoto d’Abruzzo); direttore di eventi (per sette anni organizza le offerte musicali dell’Estate Fiorentina, per undici il festival senese La Città Aromatica, per alcune edizioni il Concerto del Primo Maggio e la Notte della Taranta, fino a diventare direttore artistico del Festival di Sanremo); musicista richiesto in tour e in sala di registrazione (collaborerà a lungo con Luciano Ligabue, ma avrà modo di suonare anche per Vasco, Ornella Vanoni, Gianna Nannini, Zucchero); creatore del più importante studio di registrazione italiano, quelle Officine Meccaniche attive dal 1994 in cui sono passati Enzo Jannacci e molte eccellenze italiane, ma anche Lady Gaga e Stewart Copeland dei Police, i Muse e i Franz Ferdinand; e infine produttore attento e sensibile di artisti forse anche lontani dal suo gusto di autore, e basterà fra tutti ricordare il lavoro strepitoso fatto con Arisa (La notte arrangiata da lui è un piccolo capolavoro) e con gli album napoletani Massimo Ranieri, giustamente premiati per il suo intervento, per non parlare delle bellissime e recenti Note di viaggio, due album recenti e corali dedicati al maestrone Francesco Guccini, per rendersi conto delle mille frecce al suo arco.
Sul lavoro di produttore, Pagani ha le idee chiare: «Bisogna avere una grande attenzione e una buona propensione a dimenticare i propri sogni. Devi calibrare il peso di ogni parola e di ogni nota, fare emergere le qualità di un artista e aiutarlo a difendersi dai suoi difetti. Ho sentito troppi cantautori che cercavano di suonare come i Rolling Stones, e troppi rockettari che cercavano di essere Guccini, perché il produttore non sapeva dimenticarsi dei propri gusti e faceva violenza agli artisti».
Grande uomo di musica a tutto tondo, Pagani. E bella persona. Che dedica l’autobiografia «a ogni amica e amico che con me ha spartito sogni e dolori, aiutandomi a diventare, spero, una persona accettabile». E la conclude con un “Minima moralia” che converrà citare per intero: «1) Non permettere sia fatto agli altri quello che non vorresti fosse fatto a a te; 2) Ricorda che è diritto di ogni essere umano vivere, conoscere, sapere, capire, sognare, scegliere, decidere, amare; 3) Difendi ogni giorno la libertà, tua e degli altri; 4) Cos’è la libertà? Poter scegliere di fare il bene; 5) Cos’è il bene? Il bene di tutti, prima di ogni altra cosa; 6) Rispetta te stesso, ama gli altri; 7) Tieni lontana l’invidia, se la meta del tuo vagare è la felicità; 8) Difenditi, non aggredire; 9) Non dominare, non subire; 10) Perdona, non dimenticare».
Foto di copertina : Alpheus@Daniela Tedesco