Il regista emiliano mette in immagini “Fai bei sogni”, il best-seller del giornalista torinese, valorizzando il pregio principale del cinema: fare della fantasia il motore di una storia, anche molto triste, come la perdita della madre. A 9 anni Massimo resta senza genitrice: e non riuscirà a pacificarsi con la vita finché cercherà di rimuovere quell’assenza. Diventerà adulto, nel pieno e più felice senso del termine, solo facendo i conti con se stesso e la sua famiglia, con l’Italia che cambia e la necessità di trovare il coraggio di non aver paura dei sentimenti. Cose che il film esprime con passione e intelligenza
Massimo ha nove anni quando sua madre muore, il 31 dicembre 1969. Una morte incomprensibile per lui bambino, che rimane priva di spiegazioni anche quando cresce, diventando un adolescente spaventato dalla vita e un adulto che l’esistenza e le emozioni le tiene a bada grazie a massicce dosi di freddezza e distacco. Soprattutto tenendosi a distanza. Anche dall’amore, anche dalla guerra (quella in Bosnia), alla quale partecipa negli anni Novanta come giornalista e dalla quale ritorna senza avere in apparenza riportato particolari danni. Un’apparenza, appunto, coltivata con grande abilità, la stessa messa in atto fin da ragazzino, quando all’immagine del figlio orfano Massimo impara a sostituire l’immagine decisamente meno patetica, anzi, in qualche modo eroica, di una madre lontana, dall’altra parte dell’oceano, remota, sì, ma comunque raggiungibile…
Perché tutto è meglio di una madre morta, anche una madre distante ed estranea. Tutto è meglio dell’incomprensibile mistero della perdita. E infatti soltanto quando il bambino, ormai cresciuto, si deciderà ad affrontare quel mistero, quella verità che nessuno vuole pronunciare, come se il silenzio bastasse a cancellarla, solo allora, finalmente, il ragazzo cresciuto in apnea imparerà a respirare a pieni polmoni, e l’uomo che ha paura di soffrire scoprirà il rischio delle emozioni e la pienezza della vita.
Massimo, il protagonista del film Fai bei sogni di Marco Bellocchio, che da bambino ha il volto intenso di Nicolò Cabras e da adulto quello dolente di Valerio Mastandrea, è Massimo Gramellini, autore di un best-seller molto amato dal pubblico e inevitabilmente criticato dagli addetti ai lavori. Al vicedirettore della Stampa è stato in effetti rimproverato di tutto, dall’eccesso di sentimentalismo all’uso cinico della propria vita per farne spettacolo (e naturalmente denaro). Quasi nessuno ha affrontato la questione vera e cioè se Fai bei sogni sia un bel libro oppure no. Probabilmente non lo è, in termini squisitamente letterari, ma qualcosa di vero e palpitante in questo libro c’è, quasi suo malgrado, ed è probabilmente ciò che spiega il suo grande successo. Una capacità di parlare di bisogni veri, di dare voce a palpiti e incertezze e stordimenti che ci appartengono, anche se non siamo rimasti orfani a nove anni. Perché l’esperienza della perdita, dello sbigottimento e della paura è universale.
Proprio di questo parla Marco Bellocchio, di una famiglia e di una casa, del lavoro della memoria e dell’Italia che cambia, della necessità di fare i conti con sé stessi e del bisogno di farsi interpreti della storia degli altri oltre che della propria. Tutti temi che il regista emiliano ha trattato tante volte nel suo cinema, scavando e interpellando, proponendo risposte e soprattutto lasciando domande aperte. Senza mai smettere di attingere alla forza tutta umana eppure intimamente sovrumana dell’immaginazione. Quella che nel finale di Buongiorno, notte metteva in scena l’impossibile passeggiata per le vie di Roma di Aldo Moro, restituito alla vita e alla libertà, e che nel finale di Fai bei sogni mostra il gioco a nascondino di una madre e di un figlio e riduce la perdita a un piccolo spavento che passa subito. Pensavo di averti perduto e invece eccoti qui: era solo uno scherzo, un miraggio, un gioco appunto.
È pura fantasia, la realtà è un’altra, ma l’immaginazione proprio a questo serve: a creare nuovi mondi e trovare consolazione dal dolore, a ribellarsi alle ingiustizie e sopravvivere alle tragedie. Lo dice anche il magnifico personaggio interpretato da Roberto Herlitzka, un insegnante un po’ padre spirituale del piccolo Massimo. Al bambino che ancora e sempre si chiede come sarebbe «se la mamma fosse ancora qui», risponde ruvido: «Il “se” è il marchio dei falliti, in questa vita si diventa grandi “nonostante”».
Popolare e raffinato, intriso di sconfinato rimpianto eppure capace di infinita leggerezza, Fai bei sogni è un film di Bellocchio che di primo acchito somiglia poco al cinema di Bellocchio, eppure sotto sotto riconosci quella vena di paura e di coraggio, quel filo sottile che lega insieme sorrisi mancati e assenze imperdonabili, nostalgie che bruciano e salti nel vuoto. Alla ricerca della vita fin dentro il cuore del cinema. Con emozione.
Fai bei sogni, di Marco Bellocchio con Valerio Mastandrea, Bérénice Bejo, Fabrizio Gifuni, Miriam Leone, Roberto Herlitzka, Nicolò Cabras