“Fair Play” è un libro che parla di persone e di rapporti, di arte e creatività, di solitudine e silenzi. Ma soprattutto, parla di libertà. Libertà da esigere e libertà da concedere.
Fair Play non è stato scritto da una giovane donna, ma da un’eccentrica signora di settantacinque anni, e non potrebbe essere altrimenti. A voler essere più precisi, la signora in questione è una scrittrice e illustratrice finlandese di notevole fama internazionale. Il suo nome è Tove Jansson. Non potrebbe essere altrimenti, dicevo, perché Fair Play è un libro al quale bastano davvero poche parole. Sembra che non tratti alcun argomento in particolare, ma a ben vedere parla un po’ di tutto. Di tutte le cose importanti, intendo. Nessun pettegolezzo, ovvietà, incertezza, bugia, mondanità, sotterfugio, futilità. Tra le sue righe non c’è spazio per la fretta o l’impazienza, e nemmeno per il timore del giudizio altrui o per il desiderio di essere elogiati. È una narrativa elegante, concisa e avveduta, che tocca l’essenziale senza addentrarsi mai in trame e linguaggi superflui. Una narrativa matura, esperta. Ma non per questo la sua lettura appare quieta, piacevole, anzi, è decisamente radicale, sia nei contenuti sia nella forma. Concepito come un susseguirsi di episodi senza un chiaro rapporto temporale tra loro, il libro si svolge infatti in un ampio arco di anni e in uno scorrere limpido e inevitabile di frammenti dolceamari di vita. Fair Play non è stato scritto da una giovane donna, dicevo, e non potrebbe essere altrimenti. Perché racconta di tutti quei momenti nei quali la nostra affannosa ricerca diventa nient’altro che una rivelazione.
Mari e Jonna sono due artiste un po’ avanti con gli anni. Affacciati sul porto di Helsinki hanno due atelier l’uno di fronte all’altro. E una casetta di legno su una minuscola isoletta appartata, nella quale si rifugiano di tanto in tanto, da sole o in compagnia di qualche amico. Mari scrive, illustra, s’appassiona, osserva, parla, si preoccupa, fa domande, mentre Jonna intaglia il legno, dipinge, guarda film, tace, litiga e ogni tanto dà risposte. In poche parole, le due donne non potrebbero essere più diverse. Nel corso del tempo, però, pare che abbiano imparato a comprendersi e a lasciarsi vivere, nonostante – o forse proprio in quanto – trovino spesso il coraggio di dirsi che preferiscono in certi momenti stare da sole. Non è importante quale sia il reale rapporto che intercorre tra le due, perché potrebbero essere anche due sorelle e non cambierebbe nulla. Mentre ci immergiamo, infatti, nel loro mondo fatto di briciole di legno, maree, impasti per colori, tazze appese al lavello, nebbie, schiamazzi di uccelli marini, comprendiamo che Mari e Jonna hanno imparato a trasformare la loro quotidianità in una riserva di sorprese in grado di nutrire ogni attimo della giornata, trovando di volta in volta soluzioni innovative e inattese rivelazioni ai piccoli e grandi dilemmi della vita. Le loro personalità si incontrano e scontrano lungo le pagine del libro senza mai aver bisogno di troppe parole o fatti eclatanti. La sostanza è tutta lì, intendo, davanti ai nostri occhi. Dietro al susseguirsi di episodi di ordinaria quotidianità (una gita in barca, cambiare un quadro alla parete, un litigio banale, guardare un film di Fassbinder), Tove Jansson ci mostra qualcosa di scontato ma anche fondamentale della vita. Qualcosa di talmente scontato che ormai non riusciamo quasi più a notare: l’inafferrabile fonte di curiosità ed interesse che nasconde dentro di sé ogni piccola piega dell’esperienza e la capacità che ne scaturisce di distinguere ciò che conta veramente da ciò che è irrilevante. E dunque anche noi, sempre concentrati sui beni di consumo, la connessione internet – o, come direbbe Dylan Thomas, che ci disperiamo per automobili rimaste senza benzina e che giochiamo con ferocia a bridge – anche noi dovremmo smetterla con le nostre cose da nulla e fermarci un attimo a pensare se per caso non ci manca la cosa più importante: la condivisione con qualcuno della meravigliosa semplicità della vita. Perché, come fa dire l’autrice a un personaggio secondario del libro: “in fondo quello che conta è non stancarsi mai, non cadere mai nell’indifferenza, non perdere l’interesse né la propria inestimabile curiosità”.
“Mari” disse. “Ti dispiace che non vediamo altra gente?”
“No, non più”.
“Bene, perché anche se vedessimo altri, come andrebbe a finire? Come al solito, chiacchiere inutili su insulsaggini. Nessun ragionamento strutturato, nessuna idea di fondo. Nessun filo conduttore. Non ho ragione? Si sa già più o meno cosa diranno tutti quanti”.
Quante volte abbiamo pensato anche noi queste stesse cose? Quante volte ci siamo domandati se valesse ancora la pena rincorrere l’Altro? E poi: esiste davvero qualcosa che non ci siamo mai detti gli uni agli altri?
“Comunque” obiettò Mari, “ogni tanto qualcuno di noi potrebbe anche dire qualcosa di inaspettato che non rientra negli schemi, ne è del tutto fuori e ti costringe all’attenzione. L’irrazionale, sai”.
Eccole, le parole che stavamo aspettando.
Fair Play è un libro che parla di persone e di rapporti, di arte e creatività, di solitudine e silenzi. Ma soprattutto, parla di libertà. Libertà da esigere e libertà da concedere. “Fair Play” non è stato scritto da una giovane donna, ribadisco, e non è stato scritto oggi, ma quasi trent’anni fa (anche se per certi aspetti potrebbe essere stato scritto in un passato ancora più lontano). Perché il terrore di perdere tempo, occasioni, oggetti e persone avrebbe reso inimmaginabile la sostanza stessa della sua storia. Ed è per l’appunto a noi, donne e uomini più o meno giovani del presente, ai quali servirebbe riflettere sul ribaltamento di prospettive che ci obbliga la lettura del libro. Che senso ha, infatti, trascorrere le giornate a rincorrere il tempo? Che cosa significa essere produttivi e perché ci siamo adattati a preferire la produttività all’essere creativi? La persona amata è soltanto un altro oggetto da mostrare, comprare, controllare, possedere, assoggettare e consumare? E infine, a chi concediamo davvero quella libertà della quale ci riempiamo la bocca ma che in fondo scambiamo con l’indifferenza, l’egoismo e la pretesa di non dover avere limiti ai nostri desideri, comodità e mire?
Eccole, infine, le due rivelazioni di Fair Play. Non permettere mai che le banalità e le miserie quotidiane indeboliscano il nostro personale senso di curiosità per la vita. Concedere all’Altro almeno lo spazio della sua ombra e accettare la sostanza con la quale è stato intessuto. Perché Fair Play ci insegna che alle volte c’è bisogno di un po’ di distanza per mantenere vive e vicine due persone.