Falstaff: quel Verdi in Oltrepò

In Musica

Accadeva nel lontano 1980: quando Strehler dalla Scala catapultava Shakespeare in Padania. Orai il Piermarini ripresenta quell’edizione dell’opera verdiana rivista nella regia da Marina Bianchi e sorretta dall’autorevole direzione di Danele Gatti. Concentrato (contrariato?) sull’orchestra

Vien quasi da ridere al pensiero che quando debuttò alla Scala, il 7 dicembre 1980, direttore Maazel, il Falstaff di Strehler fosse considerato un gesto osé: Shakespeare catapultato in Padania, Sir John Falstaff stravaccato fra botti di vino (Sangiovese, Gutturnio?), Windsor affacciata sull’aia di un fienile, trame e trabocchetti tra le nebbie di un notturno di casa nostra. Agli occhi di oggi un’operazione timidissima, quasi filologica nell’ambientare un classico di Verdi esattamente dove Peppino nacque e tenne casa, più Piacenza che Parma.

Quel Falstaff, recuperato da un “prestito” russo, è di nuovo in scena alla Scala e riparte l’altalena tra “per fortuna, l’éra inscì bel, mica quelle cose lì che non si capisce niente!” e “basta con i pezzi da museo, non si può più vederli, novità, novità!”. Ma il tempo li spegne tutti i grandi lavori di regia? L’ultima parola ce l’ha sempre il teatro, qui e ora. Alle Nozze di Figaro di Strehler, ogni volta che riappaiono, ci si arrende sempre. Forse anche al Don Giovanni. E Falstaff? Vediamo.

L’ambientazione è pressoché irrilevante, in questo caso (finiamola di scambiare regia con scenografia). La regia è la luce interiore di uno spettacolo che, se ben rimontato, come nel caso oggi di Marina Bianchi, di Anna Maria Prina per le coreografie, di Leila Fteita per le scene e di Franca Squarciapino per i costumi di Ezio Frigerio, i gesti che contano li fa arrivare sempre, ieri come oggi. Anzi, te li sbatte in faccia. E nel Falstaff di Strehler un gesto simbolico, che ne raccoglie tanti se non tutti i più importanti dell’opera, c’è: le mani dei due giovani, Nannetta e Fenton, che dopo l’abbraccio sul fieno, sullo struggente “Bocca baciata” si mandano un saluto di lontano, nell’aia che li separa. È un raggio sulla “seconda trama” di Falstaff: l’amore vero dei ragazzi contro l’erotismo fuori tempo massimo di Falstaff.

Gli assomiglia molto un altro gesto squisitamente strehleriano che da anni rimane impresso nella memoria di tutti: le dita di Don Giovanni e Zerlina che si sfiorano, indugiano, si trattengono in “Là ci darem la mano”. Una regia e perfino un’opera in un istante. (Tra parentesi aggiungerei anche Tristano che s’inginocchia davanti a Isotta nel Tristan di Wagner riletto da Patrice Chéreau, strehleriano nell’anima). 

C’è altro nel vecchio Falstaff di Strehler a dire del tocco da maestro. La scena del lancio nel fosso di Sir John infilato nella cesta, con la secchiata d’acqua in palcoscenico, fatta delle poche, vecchie, banali cose di cui è fatto il teatro, è teatro. E teatro sono la pancia all’aria, il passo stanco, la posa sussiegosa di Falstaff, l’inchino di Mrs Quickly al “reverenza”, il gioco abile dei nascondimenti, la frenesia delle scene d’insieme, il finale a sala illuminata in cui i “tutti gabbati” che Falstaff mette nel dito siamo noi, tutti noi, non solo i cantanti schierati davanti. Insomma cose note, “attrezzi” disponibili a tutti, basta saperli usare. Non è un reperto archeologico questo Falstaff della Scala; se lo sembra, non è per colpa di Strehler, ma di coloro che oggi sono chiamati a dargli vita. E qui le cose si mettono male.

Non c’è scatto, verve, ironia, leggerezza in quest’opera capolavoro di elegante malinconia (del vecchio Falstaff), di arguzia (di Alice e amiche donne), di speranza (dei giovani Nannetta e Fenton). 

Nella compagnia di canto tutto sulla carta è in regola: Ambrogio Maestri che si reincarna in un personaggio assolutamente suo, per voce e profilo fisico; Luca Micheletti che entra dopo molti illustri baritoni nella parte di Ford, gelosia e ingenuità; Rosa Feola che dà la sua bella voce di soprano all’orgoglio femminile di Alice; Martina Belli nel ruolo più scuro di Meg, Alice bis; Antonino Siragusa, Christian Collia e Marco Spotti molto agitati nel balletto delle macchiette Cajus, Bardolfo e Pistola; Juan Francisco Gatell che presta la sua vocalità di testa alla fragilità di Fenton; Rosalia Cid piegata nelle tenerezze di Nannetta; Marianna Pizzolato a scuotere con esperienza le trame di Quickly. 

Il problema è che, confinato Ambrogio Maestri a condizioni di voce precaria e a un fascino “di presenza”, due sole voci hanno qualità che appaga: quelle di Micheletti e Rosa Feola. Il resto è canto arruffato, pesante, spesso gridato, indistinto, in un’opera che di indistinto non ha niente, scritta com’è in punta di penna come nessun’altra di Verdi. 

Quasi contrariato dalla materia a disposizione, che, a parte il Coro, non “corre”, Daniele Gatti sembra concentrato solo sull’orchestra, ma in una chiave quasi dimostrativa che un po’ sconcerta. Gatti è un musicista meraviglioso, capace di concertazioni sorprendenti, che illuminano i lati nascosti di quel che conosciamo da una vita. Ma qui, in questo suo ritorno alla Scala, teatro che lo meriterebbe per davvero, qualcosa non è scattato. Non la scintilla della grazia e dell’allusività. C’è qualcosa dietro.

Foto: Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala

Teatro alla Scala. Giuseppe Verdi Falstaff. Dirige Daniele Gatti, regia di Giorgio Strehler ripresa da Marina Bianchi (repliche: 23, 26, 29 gennaio, 1, 7 febbraio)

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