Il musicista turco si è esibito con la Verdi nelle vesti di pianista e direttore d’orchestra eseguendo oltre a Beethoven e Mozart una sua composizione, omaggio a Kemal Atatürk
Fazil Say rivolge un grande sorriso al pubblico e un inchino che mette in evidenza la lunghezza forse un po’ eccessiva della giacca. Pare di conoscerlo da sempre, come un vecchio compagno che non si incontra da tempo. D’altra parte il suo approccio fresco e libero dalla rigidità del mondo della classica è testimoniato anche dalla sua biografia. Nel suo sito si parla di concerti “più diretti, più aperti, più emozionanti: in definitiva, che vanno dritti al cuore.” Per quello che si è potuto vedere all’Auditorium di Milano nei tre concerti tenuti dal pianista turco non si potrebbero trovare parole più adatte.
In quest’occasione Say interpreta anche il ruolo di direttore dell’orchestra de LaVerdi, che lo accompagna lungo un programma interessante formato da un caposaldo della tradizione dei concerti per pianoforte come il terzo di Beethoven, un brano originale dello stesso Say e uno giovanile (il primo) di Mozart. Infatti, pur avendo dimostrato una capacità camaleontica nell’adattarsi ai più diversi generi di musica, Say appare particolarmente accattivante nello stile sfacciatamente galante di questo Concerto k.37 del giovanissimo salisburghese, col quale inizia lo spettacolo. E proprio di spettacolo bisogna parlare: come avrebbe sostenuto Stravinsky (ricordando le sue Cronache di una vita) nell’esperienza musicale anche l’occhio vuole la sua parte. Vedere Say suonare vale la metà dell’esperienza d’ascolto poiché egli interpreta la musica anche con l’eleganza dell’espressione corporea. Con i suoi sorrisi sembra spiegare la musica al pubblico che lo segue, frase dopo frase, in un racconto che raramente è così esplicito ed evocativo.
La sfida del concerto di Mozart è molto particolare: non di virtuosismo o di abilità tecnica si tratta, ma piuttosto di espressività e di carattere. Chi già conoscesse questo concerto (che come è noto Mozart ha tratto da diversi movimenti di sonate scritti da autori a lui contemporanei) saprebbe come il tipo di scrittura con cui è forgiato possa spingere facilmente a uno scadente manierismo, freddo e impersonale. Le scale, l’accompagnamento terzinato, le progressioni e i gesti enfatici del pianoforte e dell’orchestra sono stati spesso la causa di interpretazioni banali e noiose, alle quali Say riesce a dare una risposta entusiasmante. Non dirige quasi, si limita appena a qualche piccolo cenno con la mano sinistra rivolto all’orchestra, fidandosi del lavoro svolto con i musicisti nelle prove. Suona invece. Senza esagerare con il pedale, senza abbandonarsi a un facile sentimentalismo ma giocando con le note, divertendosi, con la stessa disinvoltura scanzonata con la quale è apparso sul palco all’inizio del concerto, con la giacca un po’ troppo lunga.
Completamente diverso il maestoso ed eroico terzo concerto di Beethoven, già inciso dal pianista in una memorabile occasione, sotto la bacchetta di Gianandrea Noseda. Per quanto il paragone sia difficile, l’interpretazione che Say propone a LaVerdi non delude affatto, anzi. Unico tasto dolente è forse l’orchestra che, vuoi per mancanza di sufficienti prove, o di direttore più esperto, o chissà cos’altro, si mostra a volte incapace di stare all’altezza dell’espressività del solista. Ma facendolo notare si fa probabilmente torto a questa esecuzione, che rimane comunque elettrizzante. Anche in questo caso infatti si è ben lungi da una semplice brillantezza tecnica: dalle dita del pianista escono note tanto espressive da “parlare” al pubblico come un bravo attore: ogni modulazione, ogni frase disvelano un mondo, come solo raramente capita di sentire.
Ma la particolarità di queste serate è quella di poter ascoltare non solo il pianista ma anche il compositore. In mezzo a quelli dei due giganti infatti trova spazio un brano per pianoforte e orchestra d’archi, Yürüyen Köşk, che Say ha composto in omaggio a Kemal Atatürk, padre della Turchia moderna. Come compositore il pianista turco si mostra molto legato alla tradizione, di cui è naturalmente intriso per la sua esperienza di interprete. Dispiace dover notare che spesso le prove compositive dei grandi interpreti (da Glenn Gould a Friedrich Gulda) soffrono il legame forte che essi hanno con il repertorio che eseguono quotidianamente. Il brano, seppur scritto da una mano capace e da una mente creativa e fervida, sembra fermarsi al livello di opera di genere, quasi un esercizio di stile. Atmosfere forti e ben connotate accarezzano le orecchie del pubblico evocando immagini tanto chiare quanto quelle di un pittore sulla tela. Sfruttando armonie colorate ed evocative, il compositore crea paesaggi diversificati e ben definiti, ma tutto ciò alla fine suona vuoto e si fatica a trovarne un senso profondo.
Prima di finire il concerto Say saluta il pubblico con la stessa aria scanzonata con cui aveva cominciato, proponendo un bis dalle sonorità jazzistiche e divertenti, chissà, forse una sua estemporanea invenzione al pianoforte, venuta fuori dalle mani di un uomo che da sempre ha avuto un rapporto diretto, spontaneo e divertito con la musica.