Al teatro dell’Elfo, una rilettura fin troppo libera – ma interessante – della tragedia di Goethe. Dall’ideazione e dalla regia di Giuseppe Isgrò, va in scena Torquato Tasso, una discesa nel verso
Non di rado in passato gli spiriti intellettualmente più complessi hanno cercato di elevare il proprio pensiero attraverso opere altrettanto fini e difficili.
Goethe, ancor prima del Leopardi delle Operette Morali, aveva capito la profonda sensibilità e la magistrale grandezza artistica di un poeta riformatore e incredibilmente ingegnoso come il Tasso, prova ne sia soprattutto il suo capolavoro letterario, la tragedia omonima che dai migliori è stata sempre letta come una “catabasi nel verso”.
Ebbene, così come l’arte drammatica in tutte le sue nobili sfaccettature, anche il Verso – e parliamo ora di prodotto lirico e non di becero rumore animale – pretende rispetto, perché esso può comunicare anche senza essere manipolato, distrutto, o truccato volgarmente con un ombretto che elimina il taglio degli occhi della vera bellezza poetica, sempre calata nello studio di chi la sa leggere.
L’intelligente regia di Giuseppe Isgrò ha avuto la fortuna estrema di poter lavorare con un attore competente e camaleontico del calibro di Daniele Fedeli. Questa giovane perla del teatro riveste – anche da seminudo – i panni di Torquato Tasso, riuscendo a incorporare e scorporare di continuo il ventaglio psicotico, senz’altro sofferto e rinomato, di molteplici personalità.
Non è un caso che Fedeli sappia impugnare molto bene e con delicatezza la spada del suo monologo, o che sappia vestire elegantemente la divisa da scherma, o ancora che sappia coprire il suo volto dagli en garde di una critica che oscilla ora tra l’ammirazione e il dubbio.
Come un canarino in gabbia, le mille voci di Fedeli, da quella del poeta, a quella di Eleonora d’Este e finanche a quella di Antonio, trillano come se sentissero il bisogno di evadere da una Sant’Anna ferrarese del XXI secolo.
L’intonazione s’incastona perfettamente nel puzzle del palco, abilmente reso disarmonico e brutto da un patchwork di scampoli gettati per terra e da laterali micro-sequenze televisive.
Talvolta non è poi così sbagliato, oltre che accogliere la provocazione di una regia, sapersi domandare che cosa avrebbero pensato Goethe o Tasso nel vedersi messi scena secondo queste modalità lecitamente non convenzionali. E quest’ultima non è una domanda senza senso o fuori luogo, non meno almeno di vedere un poeta del ‘500 trastullarsi in sala Bausch con un dildo di gomma, e neppure se di fatto ci possa risultare anacronistico.
Sovente ci sono quesiti talmente spontanei che non possono far altro che lasciar il pubblico, specie quello degli umanisti, a bocca aperta, nel bene o nel male. Uno di questi potrebbe essere: Cui prodest?
Lo spettacolo al quale si potrà assistere fino a domenica 27 novembre al Teatro dell’Elfo mette in scena un’opera senz’altro complessa a livello letterario, ma che oltretutto viene appesantita da suoni frastornanti e da luci che incarnano metaforicamente il disagio psichico di chi ha sofferto di una malattia mentale.
Quando infatti un testo per uno spettacolo risulta difficile, ogni curatela tecnica dovrebbe creare un apporto scenico a favore dello spettatore; tuttavia, risulta sempre difficile “penetrare nel verso” quando si viene distratti. In questo modo la Parola non solo passa in secondo piano, ma non diventa neppure atto, rimanendo invece potenza finalizzata a un ritrito orpello psichedelico o stroboscopico.
Forse è proprio vero che Torquato Tasso con la sua avventatezza, il suo disagio e la sua finezza intellettiva sapeva scandalizzare con la sua arte una platea che lo canzonava, e ci riusciva cinque secoli fa, senza neppure mostrare il lato B in jockstrap.
Uno spettacolo per nulla leggero nella misura hegeliana del termine, ma, come ogni spettacolo, degno di essere vissuto per potersi porre qualche domanda in più sul valore della letteratura, della filosofia e non di meno del vero teatro. E il Tasso di Isgrò è teatro vero – in senso buono.
Immagine © Francesca Frigoli