Pordenonelegge, sui confini e oltre. Il Nordest di Federica Manzon e Ginevra Lamberti.

In Letteratura

A chiusura di Pordenonelegge Ginevra Lamberti e Federica Manzon – freschissima vincitrice del Premio
Campiello – dialogano di come il Veneto e il Friuli innervino i loro immaginari e si trasformino in punti di
vista su futuri in costruzione.

A uno degli incontri che simbolicamente chiude Pordenonelegge, Federica Manzon e il suo Alma (Feltrinelli), ci arrivano con una fascetta fresca di una manciata di ore di stampa: Premio Campiello 2024. Si rinnova anche senza dichiararlo (come annualmente succede) il consueto appuntamento con il vincitore del Premio veneziano – città in cui ha vissuto l’altra autrice di questo appuntamento, Ginevra Lamberti, e nella quale ha sede il suo editore, Marsilio, che pubblica Il pozzo vale più del tempo.
Con un dettaglio in più: la palma quest’anno la porta, letteralmente, la padrona di casa: la pordenonese Federica Manzon. L’insistenza sui luoghi, per una volta, non è una nota di colore in assenza di argomenti per definire due autrici. In effetti, è l’argomento. Perché Manzon e Lamberti, al Ridotto del Teatro Verdi, raccontano, con Michela Fregona, il nord est e i suoi confini.


Quando da grandi ci si pensa bambini, ci si restituisce sempre un’angolatura deformata dalla prospettiva e velata dalla patina del tempo. Si fa i conti con le relazioni che ci hanno accompagnato e i luoghi che ci hanno contenuto. Pessoa, nel Libro dell’inquietudine, scrive che in noi i paesaggi diventano paesaggio: se li immaginiamo esistono e se esistono li vediamo. È evocativo l’immaginario cui Michela Fregona si appoggia per domandare alle autrici del loro Nordest.
Partendo dalla città in cui, chiosa Lamberti, tutto è iniziato, è una frazione di spazio che guarda a un ipotetico futuro, mentre quello di Manzon è un “paesaggio incendiato”. Se il Friuli sarà sempre un affaccio, il Veneto tende a “sprofondare dentro se stesso”, nella misura in cui non ha a che fare con la superficie. L’occhio dell’autrice diventa quindi psicanalitico, non solo verso i territori ma verso le persone.


Secondo Manzon, in Veneto si generano sogni che hanno a che fare con il tessuto, mentre la domanda creativa friulana nasce dalla voglia di guardare al di là di un confine, al contempo mancanza e promessa di un altrove che diventa sincrono.


Nella vicinanza fra entrambi, il luogo è elusivo, perché si nega alla comprensione, e metamorfico.
Ma in entrambi i casi determina il carattere dei personaggi.
Da un lato, nel romanzo di Lamberti, il paesaggio è una valle pedemontana, postatomica: c’è la materia ma non l’acqua mentre in montagna vale l’inverso. Perciò la popolazione si ritira nella foresta che è stata bosco, facendo del confine, confino. Dove “ciò che resta vivo è solo ciò che cambia”, si riscrivono gli immaginari nei quali il rischio conosciuto e il suo folklore sono cambiati: il pericolo viene dall’alto, dal sole, afferma l’autrice. Così la foresta diventa fonte di salvezza; e col cambiare dei luoghi cambiano i personaggi.


Nella Trieste di confine, nel romanzo di Manzon, tutto avviene dove le appartenenze si sfumano.  Alma torna a Trieste perché suo padre vuole farle consegnare la propria eredità dalle mani di chi è stato importante, in una città che è letta come ultimo baluardo dell’Occidente nella cortina di ferro. Una narrazione che nasce, spiega Manzon, per “il disagio per l’identità come qualcosa di definito, e non di attraversato e mosso dalle storie che ci precedono. Non siamo mai univoci”.



Chi sono, per le due protagoniste di questi romanzi, significa “a che luogo appartengo”, e se nell’identità c’è il confine, l’identità è metamorfosi.
Entrambe hanno bisogno di occuparsi di ciò che è “umanamente limitrofo”. Se Alma ha un padre misterioso e seduttivo, che è la fine di un tempo, con Dalia c’è un uomo che vuole violentare, sovvertire quel che sopravvive dentro il bosco. Entrambe stanno in equilibrio precario, e decidono di non cercare la stasi, ma di surfare.
Dalia torna nella casa di bambina, però trova un abbandono. Lamberti, spiega, vuole raccontare l’abuso del singolo e il consumo del collettivo, dando parola alla parte debole però dotandola degli strumenti per reagire.
Alma invece è costretta a un ritorno, che la spinge a una comprensione di sé.
Non è un caso che siano personagge che crescono, che siano donne a non cercare di sedare la frattura. Perché è l’unico modo per una donna “di non soccombere agli eventi”.

A est, secondo Manzon, esiste un’abitudine radicata e radicale al lasciare le radici, ma la si coglie solo quando si va via. Per Alma solo l’essere tra diversi indica una definizione di sè, come le accade quando arriva – da Belgrado – un ragazzo che sconvolge il suo mondo asburgico nel loro cercarsi, nell’avere bisogno dell’altro per dirsi.

Dalia e Alma, insomma, si interrogano su un futuro possibile, ma devono scendere dentro un passato fatto d’acqua, e soprattutto di desiderio.
Se quello di Lamberti è un medioevo di ritorno, le sue rovine lo fanno ancora appetibile, abitato da personaggi magici come Orsola, per cui la laguna è “Un piccolo lago e una premonizione di mare”. All’indomani di una “apocalisse morbida”, Dalia non trova più nessuno, Dalia si muove dalla valle, dove ancora esiste chi desidera ancora consumare, ma da consumare resta solo l’umano. Orsola invece, porta le storie. È un orpello la trasmissione delle storie per immaginare un nuovo futuro?

L’acqua, il mare “di tutte le iniziazioni” di Manzon è invece politica, un mare democratico in una città che è molte città. Così per la città di Trieste il mare è domestico, e a seconda del mare che scegli dici chi sei. Ma chiunque tu sia, d’estate vai sulla stessa fascia di mare: si tratta di scegliere se guardare verso Venezia o verso la promessa che arriva a Istambul. Per questo, fino a una manciata di anni fa, a Trieste ognuno parlava in dialetto, la lingua con cui si accoglie lo straniero, la lingua che viene dal mare. La sola con cui, in qualche tratto, si potrebbe usare la prima persona, come in qualche passaggio, come per sbaglio, fa il romanzo di Manzon, dove l’io personale è l’io di chi è compromesso con la storia che racconta.



D’altra parte, dice Lamberti, passando da King, se “esistono terre maledette a prescindere da chi le abita” e la storia prende il posto della geografia, non resta altro che arrendersi alla fuga o all’inazione. Salvifiche, certo, ma se la maledizione agisce sui territori e le società, della maledizione possiamo fare una metafora per restituirci responsabilità, e quindi tornare all’io per farsene carico.

Il padre di Alma legge la geografia come stabile, la storia come un accidente. Questo accade perché viene dalla Jugoslavia, dove si è sognato un nuovo paese, lo ha visto cambiare e poi infrangersi nel guardare al passato, identificando un popolo come diverso dall’altro, per fare di memorie sepolte ragioni di nuove guerre. Così fanno, oggi, i portatori di guerra. Rifiutare il passato significa, quindi, lasciar andare le ferite, ma crescere senza passato “non ti da – dice Manzon – una lettura del mondo”. Si tratta piuttosto di capire cosa farne,  come declinarlo in futuro.

Libri come questi sono allora chiavi per leggere il futuro, attraverso i temi cardine del presente.
E la prima urgenza del presente è quella “ecologica”, la riflessione sui luoghi che abitiamo, e a non essere ignavi rispetto a chi verrà, perché, scrive Lamberti “c’è troppo male per trovarlo in un punto solo”.
Siamo in un’epoca di grandi conflitti e – dice Lamberti – questa lo è: contro chi è costretto ad avere paura del domani e dell’oggi, e contro chi è costretto alla migrazione climatica, da parte di chi vuole perpetrare il suo benessere. È qui che si inserisce la delegittimazione di chi vuole superare i confini stessi. Senza intenzione, non si bonifica il luogo in cui viviamo.


In Manzon questo agire passa dalla cura dei non-luoghi, e di chi, come Basaglia, dà un posto a quello che non c’era. Quello che è accaduto nella città dei matti, secondo la scrittrice, è potuto avvenire solo lì, in quella “marginalità di sguardo” che Trieste è. Si è potuto dare dignità a un luogo invisibile nel mezzo della città. Aprirlo, farne uno spazio di flusso, restituisce dignità alle vite, e fare di un manicomio il bar del posto delle fragole. Per restituire la meraviglia e la sfida – dove il pozzo vale più del tempo – dell’anima – Alma – dei luoghi.

Le foto sono di Alberto Bogo.

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